venerdì 22 maggio 2009

I segni del male



Katherine Winter di professione smaschera fenomeni che hanno del miracoloso riconducendoli nei più razionali lidi delle spiegazioni scientifiche; ricco carnet di vittorie e una volitività che ne fa una figura da prendere a esempio. Katherine Winter è stata una suora protestante sino a cinque anni prima, la sua fede in Dio e l’assoluta convinzione di dover fare la cosa giusta l’avevano spinta, con marito e giovane figlia, in un villaggio del Sudan a prestare soccorso alla popolazione bisognosa. L’Onnipotente, o l’Angelo caduto, la mettono alla prova: l’arrivo della famiglia porta un anno di siccità, morte e sofferenza. La soluzione sembra essere solo quella di offrire in olocausto il marito e la figlia di Katherine, che non può fare niente per salvarli. Katherine Winter, adesso, non crede più né a Dio né al Diavolo, la sua vita è protesa al continuo dimostrare al mondo che l’uomo alla fine dei suoi giorni dovrà rendere conto solo a sé stesso. Una telefonata da chi non avrebbe più creduto di sentire, però, può rimettere in discussione tutto: padre Costigan, suo amico di vecchia data, le comunica, fortemente preoccupato, di aver recuperato delle foto di lei con la figlia, e il suo volto in ognuna di quelle immagini è consumato dal fuoco, fenomeno al quale si è trovato anche ad assistere di persona. I ritratti, messi insieme, formano una croce che termina in una falce, simbolo di una setta satanica dalle origini millenarie e segno del cielo secondo il religioso, che sta mettendo in guardia la donna. Ma sono parole perse nel vento: Katherine ha ripreso a dormire da quando ha smesso di pregare e non ha alcuna intenzione di ritornare sui propri passi. Scienza e raziocinio sono il suo unico credo, ora.
Qualche giorno dopo, la scienziata riceve la visita di Doug Blackwell, un insegnante di Heaven, pacifica cittadina della Louisiana dove, all’improvviso, a seguito della morte per annegamento di un ragazzo, il fiume si è tinto di rosso. La popolazione locale, devota a Dio al limite del fanatismo, è convinta che la causa di tutto sia da ricercarsi in una dodicenne che, a parer loro, ha dapprima ucciso il fratello e poi operato il sortilegio.
L’opinione comune è che la ragazzina, Loren McConnell, figlia di madre single e sospettata di satanismo, sia nientedimeno che l’emissaria di Satana sulla Terra, e che il fiume rosso sangue non sia altro che la riproposizione, di lì a breve, delle dieci piaghe d’Egitto. Katherine è ovviamente scettica ma decide di intervenire e parte alla volta di Heaven con il suo socio Ben, un omaccione di colore con un passato di delinquenza giovanile e un presente e un avvenire di redenzione.
Stephen Hopkins dirige con polso fermo un film che avrebbe potuto tranquillamente prendere, visto l’argomento trattato, la scorciatoia del gran baraccone carico di effetti speciali senza nerbo narrativo. Fortunatamente così non avviene e possiamo invece godere di un robusto thriller dell’anima con una Hilary Swank convinta e convincente nei panni di una detective dell’occulto che si ritrova a investigare soprattutto su sé stessa: gli insistiti flashback sulla tragica esperienza vissuta in Sudan ad opera di un massiccio indigeno dalle orbite vuote e grondanti sangue sembrano essere un pressante invito ad “aprire gli occhi”, a reimparare a vedere le cose nella loro esatta prospettiva senza il filtro dell’ottusità, di qualunque natura essa sia. E il fatto che sia la presunta serva del demonio a mandarle quegli input può forse voler dire qualcosa di molto serio. Segnalazione di merito per AnnaSophia Robb che dona al suo personaggio di bambina scatenatrice delle piaghe bibliche un alone di forte mistero unito a una presenza scenica notevole. La giovane attrice riesce a tenere testa alla consumata professionalità della Swank e i loro momenti di confronto evocano quella sofferta complicità che ci può essere tra una madre e una figlia rifiutata dalla società perché 'diversa'. E se questa diversità è opera del Maligno l’unica soluzione è quella del linciaggio. Non è assassinio bensì giustizia divina se uomini e donne armati si scagliano su una giovane che, all’apparenza, fa piovere rane dal cielo e scatena un assalto di cavallette contro i suoi persecutori in una sequenza fra le più potenti del film. Una scena che preme sul petto e provoca autentico raccapriccio.
E’ solo nell’esagerato prefinale, debitore de I Predatori dell’Arca Perduta, che Hopkins paga pegno a un cinema più fracassone. Ma è solo un peccato veniale: il finale, girato in punta di cinepresa, aggiusta il tiro e ci regala una genuina scarica gelata lungo la schiena.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, su http://www.cineboom.it/

La Maschera del demonio


Anno 1960. Nei cinema i fasci di luce dei proiettori riversano sul pubblico le inquietanti fasi di un rito tristemente noto nei tempi passati: l’esecuzione di una donna rea di avere intrattenuto rapporti con Satana. Siamo nella Moldavia del 1600: Asa, ritenuta una strega in odore di vampirismo, viene sottoposta dal grande inquisitore, nello specifico suo fratello, che la ripudia, al supplizio della Maschera del demonio, orribile strumento di morte che ha le fattezze di una faccia di satanasso irta di grossi chiodi che viene conficcata nel volto della sventurata vittima. Le fiaccole e i fulmini illuminano con guizzi spettrali la macabra scena, la musica monta e qui Mario Bava, al suo esordio nella regia, piazza un magistrale coup de théâtre: la soggettiva di Asa, che guarda avvicinarsi minacciosamente le punte aguzze al suo viso. Lo spettatore viene così avvolto nella spirale del voyeurismo più estremo: lo spettacolo della propria morte. I gemiti di sofferenza fuori campo della donna si fanno insopportabili e la decisa mazzata che il nerboruto boia piazza alla maschera la libera - ci libera - finalmente dalla sofferenza. Il sangue sgorga copioso dalle feritoie all’altezza degli occhi, del naso e della bocca. Titoli di testa, ed è già leggenda.
Ispirato al racconto Il Vij di Nikolaj Gogol, La Maschera del demonio è senza dubbio uno dei grandi classici del cinema horror italiano. La storia della disgraziata Asa, che in punto di morte giura vendetta sulla testa dei discendenti della sua famiglia, i nobili Vajda, con il tempo non ha perso nulla del suo fascino e la sequenza, curata dallo stesso Bava per gli effetti speciali, della ricomposizione del volto di Asa prima della sua resurrezione resta ancora oggi elegantemente ripugnante.
Acuta intuizione da parte del regista è stata anche quella di ingaggiare come protagonista quella che poi diverrà l’icona della paura sugli italici schermi: Barbara Steele, viso diafano e figura oppressa da angoscia perenne nei panni della principessa Katia, pronipote e copia carbone di Asa; pregna di erotismo sottocutaneo, tanto da fare letteralmente esplodere la tomba che la trattiene legata all’eternità, quando incarna la strega vampira. Cinema d’alta scuola, che si nutre di suggestioni oniriche (la carrozza al ralenti nella nebbia), che vira nella fiaba (la bambina nel bosco che trasuda minaccia da ogni ramo sembra rimandare a Biancaneve, così come la Maschera del demonio riflessa nel fondo di un bicchiere) e che appassiona senza il ricorso a inutili ridondanze.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, su http://www.cineboom.it/

mercoledì 20 maggio 2009

Identikit di un delitto



Il cartellino del detective Erroll Babbage non evoca più da tempo il dolce riposo promesso dalla timbratura in uscita. No, perché Erroll Babbage ha guardato troppo a lungo nell’abisso e combattuto contro tanti, troppi, draghi. E, alla fine, l’abisso ha guardato in lui, che si è trasformato in un drago.
18 anni di servizio possono tarlare come 18 anni di galera, magari da innocente, la psiche di un uomo che ha la non facile responsabilità di un gregge tutto particolare (The Flock, il gregge, appunto, è il titolo originale del film): condannati per reati legati alla sfera sessuale in libertà vigilata: stupratori, sequestratori, molestatori di adolescenti, di bambini, di animali, guardoni e via discorrendo. Una sfilza di pervertiti che periodicamente devono essere sottoposti a un questionario avente la funzione di attestare o meno la non pericolosità del loro vivere fra la gente. E se ciò non dovesse dare sufficienti garanzie, niente di più incisivamente preventivo che indossare un passamontagna e giù botte con la mazza in strada alla pecorella macchiatasi soltanto di aver squadrato con un surplus di insistenza un gruppetto di ragazzine.
Ora, l’auto lo sta traghettando spedita verso la fine dei suoi giorni da vigilante: l’ultimo pestaggio ha deciso per lui un 'pensionamento' in anticipo su quello già comunicatogli dal suo superiore, ormai non più disposto a tollerare metodi da giustiziere della notte.
L’uomo Erroll Babbage ha però una coscienza che non gli permette di limitarsi a liberare la postazione di lavoro: il lamento di dolore e gli occhi mai riarsi dei tanti genitori ai quali fa visita per riaccendere la speranza almeno di poter dare degna sepoltura ai figli sottratti loro da mani insensibili, fa rombare il motore e sollevare spessi nugoli di polvere del deserto: è quasi certo, infatti, di aver individuato il luogo di tumulazione di alcune vittime di uno dei maniaci appartenenti alla sua cerchia di sorvegliati.
Prima regia americana di Andrew Lau, talentuoso quanto artisticamente discontinuo regista di Hong Kong, comunque già in una posizione di rispetto negli annali del thriller con la trilogia di Infernal Affairs ( dal cui primo capitolo Martin Scorsese ha ricavato nel 2006 la pellicola che gli ha consegnato l’Oscar tante volte solo sfiorato: The Departed), Identikit di un delitto non ha fatto in tempo a raccogliere ai botteghini Usa gli incassi sperati, in considerazione anche di una coppia di protagonisti di sicuro richiamo, dal momento che è stato proiettato solo al Festival di Palm Beach, per finire poi a rischio polvere fra gli scaffali dei dvd.
Francamente, sfuggono i motivi di cotanta disfatta. Certo, l’indimenticabilità è lontana e la versione qui recensita non gode del director's cut, ma non vuol dire poi molto: il soggetto scuote e Richard Gere sfiora il sublime nel caratterizzare un uomo di legge che si spera abbia conosciuto giorni migliori prima che la sicurezza della società lo divorasse dall’interno. Un’ossessione per nulla magnifica che gli fa trascorrere le giornate, quando non deve mettere sotto torchio nessuno, a cerchiare sul giornale i crimini a sfondo sessuale le cui modalità potrebbero far risalire a uno dei suoi vigilati. Non riesce a smettere di imbrattare carta neanche quando mangia, in questo richiamando il benemerito e certamente più 'leggero' Marion Cobretti, detto Cobra, di Sylvester Stallone, incancellabile quando si produce nella manutenzione della sua pistola masticando un trancio di pizza precedentemente tranciato con le forbici.
Curriculum per larga parte inattaccabile, con una gemma quale la Giulietta dello sfolgorante Romeo + Giulietta di William Shakespeare di Baz Moulin Rouge Luhrmann, Claire Danes è la scelta di Lau per dar corpo alla fresca di nomina Allison Lowry.
Occhi che irradiano contagiosa positività e un sorriso largo e schietto, l’agente Lowry si presenta da subito come l’antidoto alle pulsioni autodistruttive di Babbage, di cui è destinata a prendere il posto.
Babbage ha tuttavia la presunzione di non aver bisogno di alcuna “cura” e con la giovane collega, alla quale deve insegnare il più possibile nel tempo rimastogli, non sono logicamente scintille, visto soprattutto che questa, pur volenterosa e dedita alla causa, non esita a sbattergli in faccia le sue nevrosi. "Tu non parli. Interroghi!" è la sferzante osservazione durante un drink in casa di lei. Dove, finalmente, Babbage riesce a liberarsi da sé stesso lasciandosi sedurre da repentino sonno su un divano.
Forte di una decisa mancanza di accondiscendenza nei confronti dello spettatore (“Tutti abbiamo delle fantasie sessuali”, incalza Babbage rivolgendosi a uno dei suoi “assistiti”), Identikit di un delitto annovera almeno una sequenza di forte tensione e insopprimibile disgusto: l’irruzione dei due agenti federali nello 'studio' fotografico del presunto rapitore di una minorenne (sulla cui scomparsa si snoda la trama del film). Qui, all’incrocio fra il bosco di Biancaneve e il rifugio di Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti, immagini e suoni si fanno sintesi definitiva di una società cronicamente votata alla perversione, e la scelta di girare quasi tutto dal punto di vista della Lowry sembra voler avallare la necessità della perdita di una purezza di ideali a favore del profondo nero di cui si arma il 'nemico'.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di Agosto 2008.

sabato 16 maggio 2009

L'incredibile Hulk



Accantonate le artisticamente più che valide, ma disastrose dal punto di vista degli incassi, ambizioni intellettuali e le ricercatezze formali dell’Hulk licenziato dal premio Oscar Ang Lee nel 2002, la Marvel, che con il coevo Iron Man ha imboccato con successo la strada della produzione, delibera di restituire verginità cinematografica a uno dei più preziosi tra i suoi fiori all'occhiello e affida il Golia verde all’estro e al dinamismo a 24 fotogrammi al secondo del francese Louis Leterrier, allievo fra i più capaci di Luc Besson.
Sin dai coinvolgenti titoli di testa, che narrano in una manciata di minuti la genesi ai raggi Gamma dell’emulo di mister Hyde, l’intento è palesemente quello di omaggiare la meraviglia e il pathos che hanno fatto la fortuna dell'omonima serie televisiva (1978-1982) interpretata da Bill Bixby nei tormentati panni del fisico nucleare Bruce Banner e dal culturista Lou Ferrigno, strabordante dai pantaloni strappati e sempre troppo corti del gigante in perenne arrabbiatura con il mondo.
Banner si è rifugiato da cinque anni in una favela brasiliana e qui prosegue le sue ricerche per sopprimere il mostro che gli lacera carne e vestiti ogni qualvolta si arrabbia o è in preda a forti emozioni. La vita scorre in qualche modo serena fra esercizi di respirazione e un lavoro presso una fabbrica di bibite. La parvenza di normalità è però destinata a dover tornare a fare i conti con la dura realtà di un uomo in fuga: lo scienziato si ferisce e una goccia di sangue va a infettare una bottiglia di un lotto destinato a New York. Qui, un anziano signore (Stan Lee, il benemerito “papà” di gran parte dell’universo Marvel, nella consueta apparizione in un cinefumetto da un personaggio da lui creato) beve e si sente inebriato da una forte scarica di energia.
Tanto basta per rimettere in pista il generale Ross e per ridestare il mai dimenticato amore tra Bruce e Betty Ross, figlia del soldato che ha fatto della cattura di Hulk a scopi militari la sua unica ragione di vita.
Occorre che lo si ammetta: dal trailer sembrava di dover assistere a una pura e semplice sequela di botte da orbi fra titani e a spari e ad esplosioni che, se da un lato fanno rintronare le orecchie, dall'altro lasciano libero il cervello di impegnarsi nella compilazione della lista della spesa per il fine settimana.
Fortunatamente, lo Studio offre a Edward Norton la possibilità di apportare modifiche alla sceneggiatura e questi, già regista e avvezzo, per sua natura, a questo tipo di incarichi, non si smentisce e scongiura una deriva eccessivamente adolescenziale. Oltre a offrire (dopo aver declinato a suo tempo l'offerta di Ang Lee) l’ennesima brillante performance nei panni di un Bruce Banner sempre più lucido circa la propria volontaria condizione di emarginato dal consesso civile, assemblea che, all’occorrenza, non si tira però indietro: in una delle scene più drammatiche vediamo lo scienziato, dopo una trasformazione, vagare sporco e seminudo in una strada intrisa di povertà del Brasile sulle note di The Lonely Man, il malinconico tema del serial tv. Si siede, spossato, ed è talmente malridotto da smuovere a elemosina una bambina. Che sicuramente non naviga nell’oro.
Louis Leterrier, che con Danny the Dog aveva già affrontato con furore cinetico stemperato da momenti di tiepida dolcezza il tema dell’uomo-bestia, realizza con L’incredibile Hulk un film che magari non sarà un capolavoro, ma che si staglia deciso nei suoi rimandi innanzitutto a King Kong, tanto da far presupporre un remake non dichiarato (vedi la commovente sequenza con il gigante di giada e Betty nella caverna mentre fuori imperversa un violento temporale, con Hulk che, a un certo punto, impaurito da un fulmine, ruggisce tutta la sua ira contro il cielo - più che trasparente metafora di un’umanità che non necessita di un'altezza sui tre metri e mani e piedi spropositati per schiumare verde dalla rabbia, spesso anche per propria colpa -), e a una messa in scena che non si fa pudore di porre l’accento sull’unico sentimento, l'amore, per cui valga la pena di gridare, ormai allo stremo delle forze contro quel parto di una scienza contagiata dal morbo della guerra che risponde al nome di Abominio: "Hulk spacca".

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di giugno 2008.

venerdì 8 maggio 2009

La Mummia - La Tomba dell'Imperatore Dragone



Un silenzio di tomba protrattosi per sette lunghi anni, alle orecchie del fan poteva solo risuonare come la fine di quel tutto sommato gradevole ripescaggio di una delle figure più magneticamente terrorizzanti del cinema horror dei gloriosi anni Trenta, il redivivo gran sacerdote Im-Ho-Tep, reso immortale nel 1932 dall’interpretazione di un Boris Karloff che, l’anno prima, aveva già consegnato ai posteri la maschera e le movenze di Frankenstein.
Declinando i chiaroscuri e l’espressività essenziale del capolavoro di Karl Freund, La Mummia, nei dinamismi e nei siparietti sciogli tensione delle pellicole di Indiana Jones, nel 1999 l’agile Stephen Sommers tornò infatti a srotolare le bende che avevano avvolto l’egizio, condannato per sacrilego amore a sentirsi deporre nel sepolcro, per agitarle contro l’ex legionario Rick O’Connell e la bella archeologa Evelyn ne La Mummia, primo tonitruante capitolo di un dittico che, insieme a La Mummia - Il ritorno (2001), si fece portabandiera della nostalgia per la prolungata assenza dagli schermi del professore con frusta e cappello inventato da George Lucas.
Ora, escludendo dal conto Il re scorpione, spin-off del 2002 la cui muscolare regia di Chuck Russell frena la sensazione di mera operazione raschia barile, grazie a un delizioso effetto madeleine che rituffa nelle cartapeste di Ercole e compagni, questa ormai insperata terza impresa degli O’Connell (gia sposatisi con pargolo di otto anni nel secondo episodio), La Mummia - La Tomba dell’Imperatore Dragone, giunge a dare manforte al sempre insopprimibile anelito alla libertà dalle preoccupazioni di ogni giorno già gratificato qualche tempo prima, dopo ventennale afflizione, dal ritorno col botto dell’avventura old style, sebbene chiazzata da ombre di contemporanee inquietudini, firmata Indiana Jones e il regno del Teschio di Cristallo.
Nell’antica Cina, l’invincibile e spietato re Han ha due obiettivi precisi: diventare imperatore e ottenere la vita eterna. Al potere supremo pensa la sua armata, alla perpetuità la strega Zi Juan, che chiede in cambio di poter vivere accanto al generale Ming, del quale si è innamorata.
Ingannata però con una falsa promessa, Zi Juan getta una maledizione sul sovrano, che si trasforma in una statua d’argilla insieme al suo esercito di diecimila guerrieri.
Nel 1947, l’archeologo Alex O’Connoll, figlio di Rick ed Evelyn, riporta alla luce il sarcofago di Han. Puntuale, alla incommensurabile scoperta scientifica fa da contraltare il solito drappello di fanatici che hanno atteso il ritorno dell’imperatore, che, svegliato da Rick, motivato da una pistola puntata contro sua moglie, non tarda a riappropriarsi dei millenni perduti a capo di un’intera legione di morti viventi.
Riservatosi il ruolo di produttore esecutivo, Stephen Sommers grazia l’Egitto e dissotterra il caos in terra asiatica per mano del funambolico Rob Cohen, che fa “recitare” persino il logo della Universal prima di aprire con un wuxiapian, il genere “cappa e spada” cinese, che ha il solo difetto di durare meno di dieci minuti prima di far dissolvere il mausoleo con il marziale volto dell’imperatore su quello da bambinone di Rick O’Connell, che mettendo da parte la canna da pesca a favore di una più sbrigativa pistola, si esibisce in un numero comico che riporta il film sui consueti binari 'mummieschi', vale a dire gag di immediato impatto, battute più o meno spiritose e azione a rotta di collo al servizio di una drammaturgia che vede come polvere negli occhi qualsivoglia brama di impegno.
Questa Tomba dell’Imperatore Dragone, poi, fatta eccezione per l’incipit, sigilla quelle aperture all‘ambigua seduzione del terrore che pure serpeggiava nei due lavori che l‘hanno preceduta, e 'scrivendo la parte' per tre abominevoli uomini delle nevi e un drago tricefalo, si pone a ennesimo modello di un universo immediatamente pronto a essere messo in discussione da una ben calibrata manovra del joystick.
Divertimento più che assicurato, quindi, per chi pensa in Playstation; per tutti gli altri, un suggerimento per reprimere qualche sbadiglio potrebbe essere quello di intervallare la visione valutando come assolutamente non controproducente per la carriera il mancato giro sulle montagne russe di Rachel Weisz nel ruolo, fin qui, di Evelyn.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di ottobre 2008.