sabato 18 luglio 2009

Outlander - L'ultimo vichingo




Malgrado il caldo che obnubila i sensi, non può sfuggire neanche all’attenzione dei meno smaliziati fra quelli che, aperto il giornale, scorrono con l'indice l’elenco dei film quanto quell’aggiunta italiana, “L’ultimo vichingo”, all’originale Outlander possa prestare il fianco allo scetticismo: nella stagione in cui è più facile smerciare le giacenze di magazzino, l’assonanza con il megasuccesso, datato 1986, Highlander: L’ultimo immortale potrebbe infatti preludere con scioltezza al bidone, fra l’altro dissimulato (o meglio evidenziato?) da una locandina di discreto impatto alla Conan il barbaro. A sorpresa, invece, l’esordio sul bianco telone di Howard McCain, già regista di premiati cortometraggi e di lunghi per la televisione, non avalla il peggio anche in virtù di una sceneggiatura che riesce a scavalcare con efficacia le secche di un’ispirazione fin troppo debitrice nei riguardi delle storie aventi a protagonisti due autentici mostri (in tutti i sensi) sacri del cinema di fantascienza: Alien e Predator.
Pianeta Terra, anno 709 d.C.: Kainan (un incisivo James Caviezel) è un extraterrestre la cui astronave va a inabissarsi in acque norvegesi. Il suo compagno di viaggio perisce nell’incidente e non c’è traccia del Moorwen, una creatura che si nutre di distruzione e che, clandestina a bordo, ha provocato il malfunzionamento dei comandi.
Catturato da una tribù di Vichinghi al comando di Re Rothgar, Kainan, le cui fattezze umane non ne tradiscono la provenienza, dovrà dimostrare, con non poche sofferenze, di non essere una minaccia per la vita della comunità e, una volta accettato all’interno della stessa, organizzare la trappola per porre fine ai massacri perpetrati dal Moorwen.
McCain accende la complicità con lo spettatore agevolando una progressione drammatica svincolata da ambizioni d'autore e che fa ancor di più risaltare un copione che, se pur di non primissima mano, come già accennato, riesce tuttavia a risparmiarsi qualche 'dovuto' - si veda la reale identità di Kainan, che non viene mai rivelata ai suoi nuovi compagni di vita nonchè alla bella e assai valente nell’uso delle armi Freya, figlia di Rothgar, della quale si innamora, ricambiato – e a imbastire un sistema di apprendimento istantaneo della cultura umana del periodo a uso e consumo dell’ospite da un altro pianeta che più doloroso sarebbe stato difficile immaginare.

Regia: Howard McCain. Interpreti: James Caviezel, Sophia Myles, Ron Perlman, John Hurt.
Titolo originale: Outlander. Genere: Fantascienza. Durata: 115 min. Produzione: USA 2008.

domenica 12 luglio 2009

Planet Terror



Lungi dall’apparire un puro e semplice sfoggio di abilità nel muovere il mouse, il più massiccio piegare ad arte le mirabilie del digitale in modalità Old movie consente a Planet Terror, atto secondo del progetto Grindhouse, introdotto qualche mese prima da Quentin Tarantino con A prova di morte, di meglio risuscitare sugli smaliziati schermi di oggidì un modello di cinema, il Grindhouse, appunto, caratterizzato da trame assai poco edulcorate che fra gli anni 60 e 70, in America, trastullava il pubblico di solito con due film proiettati in sequenza (negli States e in Inghilterra si è potuto apprezzare il cimento di Tarantino e Rodriguez secondo questa modalità) e spesso flagellati da bruciature, spezzoni mancanti e svariati altri danni in ordine sparso originati da una cronica scarsità di copie, e quindi dall’intensivo sfruttamento delle stesse.
Il pirotecnico Robert Rodriguez sa di non poter contare su una sceneggiatura che faccia dell’originalità la propria carta vincente (di nuovo un atto di denuncia contro l’incontrollabilità di armi - di natura chimica, in questo caso - che dovrebbero 'proteggere' e che invece si rivelano esecutrici senza preferenza per alcuno della Signora con la falce, ancora un film sugli zombie) e sfugge con abilità la tentazione di farsene un cruccio.
No, questa del cineasta texano è una pellicola che abbiamo già visto tante altre volte e magari ci è anche piaciuta di più, ma che non possiamo costringerci a non rivedere: le traiettorie della macchina da presa sulle imprescindibili coordinate di Romero, con generose porzioni di prelibatezze carpenteriane e una nube verde che tramuta in famelici mostri che pare arrivare dritta dal cult I Diafanoidi vengono da Marte del nostro Antonio Margheriti fanno di Planet Terror una trasferta nei territori della paura di allarmante (per i nervi e lo stomaco del pubblico) efficacia.
Rose McGowan regala a Cherry Darling un’avvenenza che lacrime avverse a tentazioni di compatimento non fanno che esaltare e una stella nel firmamento delle donne in azione fra la Ripley di Alien e la Alice di Resident Evil. La sequenza che vede il suo ex innestarle un mitra al posto della gamba destra che uno zombie dalle sgraziate maniere aveva deciso di consumare per cena non sfigurerebbe in una lista delle dieci scene d’amore più bizzarre di sempre.
All’epoca, di Terminator 2 - Il giorno del giudizio si scrisse che era un film violentissimo contro la guerra. Con gli opportuni distinguo, stesso discorso potrebbe farsi per Planet Terror, che, di fatto, provoca sincero disturbo non nella scrupolosa sequela di morti ammazzati quanto nel brano che vede, in un ospedale, sciorinate su un monitor le menomazioni che affliggono i soldati coinvolti nella campagna in Iraq.






















Il Cavaliere Oscuro



"… nel mio ventre la creatura si contorce e ringhia e mi dice di cosa ho bisogno…”.
Questi i pensieri che accompagnano per le strade di una Gotham City ormai sconfitta dalla criminalità un Bruce Wayne sessantenne, assediato dagli acciacchi dell’età e da dieci anni volutamente congedatosi dal suo alter ego mascherato, in quel portento disperato/dark della letteratura a fumetti che è Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller (1986).
La bestia, Batman, il pipistrello fattosi castigo, doveva avere sicuramente vita più facile nell’età gagliarda del miliardario e filantropo Bruce Wayne, quando la vendetta era lungi dall’allentare la sua ossessiva morsa nei confronti di un uomo che una rapina sfuggita al controllo aveva privato, a otto anni, dei genitori all’uscita da un cinema.
Capitolo numero 6 delle avventure del vigilante mascherato creato da Bob Kane e Bill Finger e apparso per la prima volta nel maggio del 1939 sulle tavole del numero 27 di Detective Comics, Il Cavaliere Oscuro onora in pieno il titolo presentandoci un uomo pipistrello mai così accanito contro l’illegalità e un Bruce Wayne sempre più sull’orlo di una crisi di coscienza.
A Gotham City la mafia ha esteso i suoi tentacoli un po’ dappertutto, forze dell’ordine comprese, e i fiumi di dollari risultato dei suoi turpi traffici saturano i caveau delle banche prescelte.
Oltre Batman, comunque aspramente criticato dai media per i suoi metodi repressivi assai poco riguardosi nei confronti della 'dignità' e dei 'diritti' del malfattore, l’unico baluardo a difesa dell’ordine pubblico è il nuovo Procuratore Distrettuale Harvey Dent, che, incorruttibile e dal sorriso sincero e profondamente telegenico, conduce, in accordo con il tenente James Gordon, un blitz che porta al sequestro di tutto il denaro della mafia. Salvo poi prendere atto che i soldi sono falsi (nelle mazzette ci sono anche banconote segnate da Batman per l’operazione) e che il contante è protetto all’estero dall’autorevole contabile della Piovra.
Ordinaria amministrazione, insomma, fra i grattacieli di Gotham. Solo, malviventi che sfoggiano il doppiopetto e hanno parole d’amore solo per il libretto degli assegni risultano decisamente 'volgari' agli occhi cerchiati di nero di colui che ritiene sia arrivato il momento, per la città, di vantare un criminale davvero 'di classe': il Joker.
Sguardo animato da lucida follia, capelli verdi, viso pittato di bianco, denti giallognoli, abito e modi da consumato attore del teatro dell’assurdo e labbra macchiate di rosso stirate in un ghigno perpetuo da profonde cicatrici eredità di antiche sevizie, il Joker, ispirato nella sua origine fumettistica al personaggio interpretato da Conrad Veidt nel film del 1928 L’uomo che ride, bassezza dopo bassezza riesce a portare Gotham sull’orlo della catastrofe morale e materiale.
Sì, perché nel suo farsi paladino della causa mafiosa contro Batman e la legge, in realtà il malefico clown si fa beffe di tutto e tutti bruciando il suo compenso (la metà dei soldi della Piovra) con in cima alla catasta il ragioniere della mafia imbavagliato e legato a una sedia, certificando così di agire solo e soltanto in nome dell’anarchia più slegata dai ma e dai perché - “Alcuni uomini non cercano cose logiche, come il denaro. Non possono essere comprati, comandati o contrattati. Alcuni uomini vogliono solo vedere bruciare il mondo.” - e assumendo, nell’offrire una simbolica rappresentazione dell’Uomo in quanto animale avvezzo a immolarsi sull’altare della ricchezza, statura di osceno semidio.
Psicopatico senza carta d’identità, Joker è, storicamente, l’avversario principe del raddrizzatorti in maschera. E i due sono più simili di quanto non possano pensare. Meglio, di quanto il giustiziere non possa considerare.
“Tu mi completi”, dice il malefico pagliaccio a Batman, non potendo affermare verità più vera, dal momento che un sempre più crepato divisorio etico impedisce allo squilibrio mentale dell’uomo pipistrello di fare carne da macello dei suoi nemici.
Il Joker certe finezze comportamentali non le conosce neanche per sentito dire e, in questo Cavaliere Oscuro, non deve neanche affannarsi più di tanto per dimostrare agli onesti cittadini di Gotham quanto la loro probità sia solo un’astrazione da libro dei boy scout: scatena, infatti, una tribale caccia all’uomo quando chiede la vita di un impiegato delle Industrie Wayne, reo di aver dichiarato in televisione di aver scoperto l’identità di Batman, minacciando di far saltare l’ospedale di Gotham in caso di mancata risposta.
Non pago, riesce persino a far evacuare la città sotto la minaccia di attentati esplosivi, e, una volta al largo su due navi distinte la gente perbene e i detenuti, annuncia di aver collocato sulle imbarcazioni due bombe il cui timer può essere stoppato liberamente… salvo causare la distruzione della nave che non lo ha disattivato per prima. E tutto questo solo perché desidera che Batman si umili togliendosi la maschera e facendosi finalmente da parte.
Figurarsi, a questo punto, come deve sentirsi un crociato della giustizia quando coloro che ha giurato di proteggere lo guardano in cagnesco, quando non lo combattono apertamente. E la parte finale del film, in quest’ottica, è fra le più lugubri e malinconiche che un falso blockbuster come questo possa vantare.
Caos totale, quindi, a Gotham, atmosfere post 11 settembre e capolavoro di abiezione quando Joker, facendo in modo che metà faccia gli venga sfigurata dal fuoco, riesce a portare al lato oscuro persino l’integerrimo Harvey Dent, dando vita al pericoloso criminale che il mondo conoscerà come Due Facce.
Non c’è che dire, dopo Batman Begins, Christopher Nolan si conferma (fatti i doverosi distinguo) successore unico di Tim Burton al timone delle avventure dell’uomo pipistrello: un Autore in grado di rendere palpitanti sullo schermo le asperità e le incongruenze dell’umano agire, unitamente a incisive, e amare, riflessioni sul Bene. Che ha avuto la sgarbatezza di non avvisare quando è dipartito da questa valle di lacrime.


Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di Luglio 2008.

Sfida senza regole



Al Dipartimento di Polizia di New York la sensazione è quella di bufera in fatale approssimarsi: una sequela di morti ammazzati con gettati accanto ai (o nei) corpi una pistola, la stessa per tutti, e un foglietto con su vergata una poesia con motivazione in rima del trapasso sono certo quanto di più lontano da una buona pubblicità in termini di sicurezza pubblica.
Per tacere della rispettabilità, dal momento che la pista seguita dagli investigatori sembra indirizzare verso il Corpo stesso. Un poliziotto serial killer giustiziere, insomma, che si farebbe carico, a stock di armi rubate e fantasiosi componimenti, di disinfettare le strade dalla feccia che i grossi buchi nelle maglie della legge hanno permesso potesse continuare a camminare e delinquere indisturbata.
Le indagini vengono affidate ai detective Turk e Rooster, trent’anni di unghie sotto le quali la melma ha assunto la colorazione della carne e che vedono l’orologetto della pensione prendere con un sorriso sempre più largo e indisponente le misure del loro polso.
I due sono i migliori in quello che fanno, ma le giovani leve non scaldano di sicuro la panchina: i detective Perez e Riley smaniano la luce dei riflettori e si deve alle congetture del primo il possibile coinvolgimento di un collega nei delitti.
Questi, in estrema sintesi, come si conviene per una trama gialla, gli eventi attorno ai quali ruota Sfida senza regole, onesto poliziesco che si fa evento dell’anno per il pazzesco colpo messo a segno dal regista Jon Avnet (Pomodori verdi fritti - Alla fermata del treno, L’angolo rosso, 88 Minutes), ossia il coinvolgimento, nei panni di Turk e Rooster, di, rispettivamente, Robert De Niro e Al Pacino, due leggende viventi alla prima esperienza di recitazione insieme per gran parte della durata di un film. In passato, riportano le cronache, solo due volte Lennon e McCartney (come vengono soprannominati nella pellicola in questione) avevano calcato lo stesso set: Francis Ford Coppola li volle nel 1974 ne Il padrino - Parte II senza tuttavia farli mai incrociare e Michael Mann li diresse nel 1995 nell’action-capolavoro Heath - La sfida, dove giusto un paio di scene su più di due ore e mezzo di proiezione li registravano in deflagranti faccia a faccia.
La sceneggiatura architettata da Russel Gewirtz parte d’atmosfera con l’alternanza nei titoli di testa di dettagli, primi piani e assieme dei due protagonisti impegnati in una complice esercitazione al poligono che si traduce in ideale summa di tanto loro cinema al color di polvere da sparo, per poi principiare un tormentato scavo nelle ambigue modalità di esecuzione di un mestiere che di lindo e pinto al cinema ha spesso solo il giuramento, che assolutamente non prevede nella sua formulazione l’opportunità di un bavaglio alla correttezza dettato dalla fabbricazione di prove false, unici grimaldelli per inficiare testimonianze viziate da una paura che si fa invisibile solo alle fredde pagine di un codice.
Temi etici squassanti quelli proposti da Gewirtz, che non ha avuto però l’accortezza di sfruttare tutto l’inchiostro della penna usata per il copione di esordio, quello di Inside Man: alcuni passaggi pagano una nebulosità scambiata per stimolante detto non detto e le parentesi erotico-sadomaso fra un De Niro che (apprezzabilmente, come anche Pacino) non nasconde la sua bella età e un’ammaliante e volitiva componente della squadra CSI, Karen Corelli, non sfuggono all’impressione di riempitivo.
All’attivo contiamo uno squisito gioco di attori (tirano fuori le unghie Carla Gugino, John Leguizamo e Donnie Wahlberg) che genera personaggi concreti nelle loro pulsioni e passioni, l’autorità di un altro grande vecchio del cinema da duri quale Brian Dennehy e una gagliarda autoironia circa la resistenza delle serrature di una volta.
Jon Avnet gira con un’esuberanza contrattualizzata al minimo sindacale, ed è un peccato. E’ vero che Al e Bob si dirigono da soli e che il braciere dell’attenzione lo attizzano a dovere fino al lancinante finale, a mente fredda unico momento realmente orchestrato sulla tensione, ma se la giustizia al di là della giustizia di Sfida senza regole fosse stata soppesata da un Martin Scorsese, sicuramente staremmo rubricando l’ennesimo, necessario, capolavoro.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di Ottobre 2008.

Gran Torino



78 anni e non farseli pesare. Per quello che, a quanto riportano le cronache, potrebbe essere il passo d’addio al cinema come attore, Clint Eastwood sceglie un soggetto “come al solito” poco consigliabile a chi smania di affogare nel buio di una sala per accordare la libera uscita al cervello. Film da vedere con lo stato d‘animo sintonizzato sulla giusta frequenza, allora? Non proprio, dal momento che Gran Torino è, anche, opera parecchio divertente. Sì, proprio così: si ridacchia e non difetta la risata di gusto. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che il magnifico Clint convoglia nello scostante e apertamente razzista (ma è difesa; solo e soltanto, alla fine, sgretolabile difesa) Walt Kowalski - uno che la guerra in Corea ha 'onorato' di una medaglia che da tempo, o forse dal primo giorno, ha come unica valenza quella di accompagnare le sue notti e i suoi giorni tenuto per mano da fantasmi che un tempo avevano volto e carne del 'nemico' - una eccitante sintesi dei personaggi incarnati nell’arco di cinquant’anni di luminosissima carriera, ispettore Callaghan in testa. Ed è cosa nota che Harry la carogna non si morde di certo la lingua.
Pellicola, come gran parte della filmografia eastwoodiana, implacabilmente destinata all’empireo dei classici, Gran Torino rifulge di una trascinante mezz’ora finale ritmata sulle suggestioni di una (im)possibile riconquista di un altro ieri frequentato da muli suscettibili che sempre pensavano si ridesse di loro e da poliziotti che esortavano delinquentelli di mezza tacca a farli contenti, e culminante in una 'resa dei conti' di struggente lirismo.

The Mist


Avvertenza numero uno: The Mist è un film che picchia, e forte. Astenersi spettatori dell’ultima ora o chi si vanta che più gli altri se la fanno sotto, più lui se la ride.
Avvertenza numero due: disdire la prenotazione al ristorante o in pizzeria, dal momento che sui titoli di coda si rimane atterrati, e atterriti, sulla poltrona e si aspetta solo il momento che la forza di volontà coordini i movimenti per tornarsene a casa a meditare su quanto la razza umana possa davvero risultare aberrante.
Raccomandazione unica: The Mist è maledettamente imperdibile.
Alla sua terza traduzione per il grande schermo, dopo Le ali della libertà (1994) e Il miglio verde (1999), di un’opera di Stephen King, fra i massimi autori contemporanei sui temi dell’horror e del mistero, Frank Darabont sterza nelle lande della paura più viscerale, pur senza rinunciare al lirismo magico che ha reso grandi e indimenticabili i due titoli sopra citati.
Una piccola città del Maine viene strapazzata ben bene da un temporale che lascia a ricordo alberi divelti e danni non di secondo piano. Fin qui tutto bene, può succedere.
Quella invece un po’ più fuori dall’ordinario è una grossa distesa di nebbia che avanza dal lago e che presto invade le strade, costringendo, nello specifico, un nutrito gruppo di clienti, anche forestieri, a guardare da dietro i pannelli di vetro del supermercato locale senza poter uscire.
Certo, si potrebbe tentare di raggiungere la propria auto, ma se dalla densa coltre bianca corre all’ingresso un uomo dal naso ridotto a una fontana zampillante sangue e che urla di qualcosa che ha preso il suo amico, non apparirebbe avventato rimandare il proposito. Quando poi dalla saracinesca sul retro si fanno sgraditi ospiti dei giganteschi tentacoli animati dalle peggiori intenzioni, il terrore compromette a passo sempre più spedito la razionalità. E una fanatica religiosa si dimostrerà la nemica più mortale.
Il carrello di apertura scopre una citazione e un omaggio allo stato dell’arte, visto anche il mestiere del protagonista principale, Dave Drayton, un disegnatore di manifesti cinematografici: uno dei pannelli sul muro dello studio di casa, riproducente la figura di uomo utilizzata per la locandina del film La cosa, ricorda John Carpenter, che nel 1980 terrorizzò le platee con Fog, storia di un manipolo di marinai che la bruma riporta dalla morte per vendicarsi dei discendenti degli abitanti di Antonio Bay, responsabili della loro dipartita cento anni prima; una tela in corso d’opera ossequia invece King nel ritratto di Roland, il pistolero della fortunata saga fantasy-western La torre nera.
Due generi, questi ultimi, che risaltano prepotenti, assieme alla fantascienza dei mondi paralleli, in questo film dell’orrore disturbante veramente come pochi, almeno di questi tempi di cinematografiche paure trattate a iniezioni di pixel e di ironia per un pubblico che si intende preservare da scossoni, magari non leniti da un gratificante bacio finale, che potrebbero risultare dannosi per la salute… degli incassi.
Ansiogeno scambio di suggestioni tra l’assedio di Un dollaro d'onore e quello di Distretto 13 (Carpenter, ancora), i bozzoli di Alien e Il Ciclo di Cthulhu di Howard Phillips Lovecraft, The Mist si compiace del privilegio di poter confinare cotanti illustri precedenti a mero contorno di una vicenda dove l’autentico cazzotto allo stomaco viene sferrato dalla varia umanità intrappolata nell’emporio, che vede la patina del vivere civile che fino a qualche ora prima ricopriva solida la vita di tutti i giorni, sfaldarsi e venire soverchiata da quell’egoismo e da quella crudeltà latenti comunque sottopelle e che si affrettano a marcire forte gli animi quando c’è in palio la sopravvivenza.
Quell’impronta di una mano fattasi sangue non per extraterrena volontà sulla porta di ingresso del market turberà a lungo i nostri giorni, e il prefinale, che ribalta oscenamente beffardo l’assunto portato all’Oscar da tal Roberto Benigni, non si abbandona a pietà alcuna.


Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano Il levante nel mese di ottobre 2008.