domenica 24 aprile 2011

Se sei così ti dico sì



L’inquadratura di spalle di Piero Cicala, che attende immobile e silenzioso di riportare alla luce, nel breve lasso di tempo di una canzone, una parte della sua vita morta e sepolta ormai da una buona ventina d’anni, è uno dei momenti più intensi di “Se sei così ti dico sì”, la nuova fatica cinematografica di Eugenio Cappuccio, che si snoda fra la Puglia, Roma e gli Stati Uniti e che gode di un Emilio Solfrizzi abilissimo nel disegnare la parabola umana e artistica di un cantante che negli anni 80 ha stregato le classifiche di vendita con il singolo “Io, te e il mare” e che ora, sceso dolorosamente ma con matura consapevolezza a patti con una realtà che non lo accetta più come uomo di spettacolo, vive lavorando come cuoco nel ristorante dell’ex moglie a Savelletri, in provincia di Brindisi.
L’occasione di un riscatto non richiesto (almeno a livello conscio) gli arriva da Roma, e precisamente dal programma televisivo condotto da Carlo Conti “I Migliori Anni”: tornare a esibirsi sulle mai dimenticate note di “Io, te e il mare”. Eh sì, perché la popolarità ha voltato le spalle a Cicala non per chissà quali demeriti ma semplicemente perché la proposta di un brano: “Amami di più”, dal tono e dai contenuti più seri e profondi, non si confaceva all’immagine ’balneare’ che il pubblico si era fatta di lui.
Vinta la ritrosia, anche grazie all’insistenza di Gianni, chitarrista della band “I magnifici C.C.C.” (Cicala, Ciola, Corrente), riciclatosi come barbiere una volta tramontati i sogni di gloria (declino che rimprovera a Piero e alle sue ambizioni autoriali), l’ex cantante si affida alle cure dell’amico (che vede nel ritorno alla ribalta di Piero l’occasione per una possibile rifondazione del gruppo, monco di Vito Corrente, nel frattempo venuto a mancare) e degli estetisti del paese per una riverniciata al fisico e allo spirito e parte alla volta della Città eterna, dove si imbatterà in Talita Cortès (una brava e convincente Belén Rodríguez), modella e icona planetaria costantemente tallonata da microfoni e telecamere che, inaspettatamente, gli tenderà la mano nel cammino di riconciliazione con se stesso, fino a una nuova consapevolezza del posto che gli spetta nel mondo della musica.
Sigillata dal marchio di qualità dei fratelli Avati in sede di produzione e di soggetto (che piace pensare ispirato a “L’angelo azzurro” di Josef von Sternberg) “Se sei così ti dico sì” è una commedia dal retrogusto parecchio amaro, che invita a una riflessione decisa sul potere spesso castrante del pubblico nei confronti di quell’artista che avverta il bisogno di allontanarsi dai suoi schemi abituali e insieme a far piazza pulita una volta per tutte di pregiudizi assai più che ben radicati, efficacemente riassunti in un’affermazione di Talita: «La gente pensa che siccome sono figa devo essere anche cretina».
"Figa?… Carina!" è la risposta cult di Cicala.


Originariamente pubblicato su Il Giornale di Puglia in data 22 aprile 2011

Se sei così ti dico sì
Nazione: Italia
Genere: Commedia
Durata: 100 min. Anno: 2011
Interpreti: Emilio Solfrizzi, Belén Rodriguez, Iaia Forte, Totò Onnis

domenica 17 aprile 2011

The Next Three Days


Passati tre anni dall’irruzione della polizia in casa sua, John Brennan non intende rassegnarsi all’idea che la moglie Laura abbia assassinato con un colpo di estintore alla testa la sua datrice di lavoro. Certo la vita deve continuare, non fosse altro che per garantire quanto più possibile la serenità del piccolo Luke, e il lavoro non va trascurato, ma alle parole dell’avvocato circa l’inutilità anche solo di pensare di ricorrere in appello proprio non intende dare seguito, maturando così piano piano la folle idea di progettare l’evasione di Laura. Rifacimento hollywoodiano del francese “Pour elle”, diretto nel 2008 da Fred Cavayé e interpretato da Vincent Lindon e da Diane Kruger, “The Next Three Days” si mantiene piuttosto fedele all’originale, pur senza appiattirsi a una copia conforme, e offre l’ennesima vigorosa interpretazione di Russell Crowe, non più tonico come ai bei tempi de “Il gladiatore” ma sempre credibile quando si tratta di passare all‘azione, anche se qualche concessione in più alla sospensione dell’incredulità occorre qui farla passare, dal momento che John Brennan è un tranquillo insegnante con una vita familiare più che serena e che mai, fino all’arresto di Laura, avrebbe pensato di poter un giorno sfoderare una pistola e puntarla in faccia a qualcuno.
In cabina di regia, Paul Haggis, autore di fiducia di Clint Eastwood (suoi i copioni di “Million Dollar Baby” e di “Flags of Our Fathers”, oltre che di questo “The Next Three Days”) confeziona un film di buon intrattenimento, cui nuoce tuttavia uno sbilanciamento piuttosto marcato fra una prima parte tutta giocata sui piccoli grandi sconvolgimenti del quotidiano affrontati da John, la cui gestione del figlio mal si concilia con la battaglia per la giustizia nei confronti della moglie prima e nello studio del piano di fuga sulla scorta degli insegnamenti di un plurievaso poi, e una seconda parte più adrenalinica, dove Brennan si trasforma in un Diabolik meno elegante dell’originale ma ugualmente efficace quando si tratta di violare le maglie di una prigione, nel caso specifico un ospedale dove Laura è stata condotta per degli esami.
La strada per la libertà è ora tutta in salita e il ritmo e la suspense si mantengono alte sino alla fine e con decoro, dato che Haggis risparmia a Brennan smargiassate supereroistiche.
Autentico valore aggiunto la prova di Brian Dennehy (lo sceriffo Will Teasle nel primo “Rambo“, ma non solo) nel ruolo del padre di John e menzione anche per una bella scena sotto la pioggia alla ricerca di prove che giustifica qualche minuto di troppo prima dello scorrere dei titoli di coda.

Originariamente pubblicato su Il Giornale di Puglia in data 15 aprile 2011

The Next Three Days
Nazione: USA, Francia
Genere: Drammatico Durata: 122 min. Anno: 2010
Interpreti: Russell Crowe, Elizabeth Banks, Ty Simpkins, Brian Dennehy, Olivia Wilde.
Regia: Paul Haggis

venerdì 15 aprile 2011

Nessuno mi può giudicare


Parafrasando Totò: “Signore si nasce”, ma Alice, modestamente, non lo nacque. Trentacinquenne di bell’aspetto e di scarsi modi, la protagonista di “Nessuno mi può giudicare” chiarisce da subito l’appartenenza alla casta dei cafoni arricchiti, grazie a un marito imprenditore nel campo dei sanitari che le ha messo a disposizione una più che confortevole villetta in zona Roma nord e tre domestici extracomunitari che tratta rifacendosi al: “Io so' io, e voi nun siete un…” del marchese del Grillo di sordiana memoria.
Una vita all’insegna del come me nessuno mai, insomma. Ma il destino, nelle forme di un incidente stradale, fa sì che i giorni dorati e assai inconcludenti di Alice abbiano a subire una 'democratica’ scossa: deceduto (in odor di infedeltà) il consorte, Alice si ritrova da sola con il figlio di nove anni, un ragazzino molto sensibile che soffrirà molto la perdita del padre, e soprattutto con debiti che il pignoramento della casa e degli altri beni non serviranno ad azzerare, dal momento che bisognerà tirare fuori di tasca, e anche piuttosto in fretta, altre diverse decine di migliaia di euro. Il tutto senza tralasciare che il bambino le potrebbe essere sottratto dai servizi sociali, in quanto non ci sono parenti prossimi che lo possano accudire. Come fare per tirarsi fuori dai guai? L’avvocato amico di famiglia aiuta con un assegno per le prime spese e invita Alice a trovarsi quanto prima un lavoro, possibilmente da mille euro al giorno. Abbandonati del tutto gli agi borghesi, Alice e suo figlio Filippo trovano un angelo custode in Aziz, il loro ex cameriere, che li porta ad abitare nel suo quartiere di periferia, il Quarticciolo. Qui, a contatto con una realtà multirazziale fino a qualche tempo prima vista solo nei telegiornali o nei film, Alice si troverà dapprima smarrita, oltre che con parecchia puzza sotto il naso, e poi, anche grazie alle attenzioni di Giulio, gestore di un Internet Point, felicemente integrata. Ma l’ accettazione delle nuova vita non sarà indolore: l’occupazione che ti può fruttare mille euro al giorno non la eserciti in un ufficio, a meno che non ci vai pronta a toglierti la lingerie. Questo, naturalmente, è quanto di più lontano dai pensieri e dalla morale di Alice, che deve però scendere a patti con sé stessa. Ricordatasi di Eva, una escort conosciuta a un party, la contatta dopo averla rintracciata su Internet. La donna si rende subito conto che il ‘mestiere’ non fa per Alice, ma accetta di aiutarla. Le loro vite ne usciranno profondamente rivoluzionate. In meglio.
Esordio alla regia di Massimiliano Bruno, già attore e autore televisivo e teatrale (anche per la Cortellesi), “Nessuno mi può giudicare” è un film fresco e simpatico, per tutta la famiglia, tanto il tema della prostituzione è trattato con garboe ironia, dove si sorride spesso e la risata di gusto non manca, unitamente a pennellate dicommozione.
Snodi narrativi di prammatica e un'eccessiva leggerezza d'insieme fanno tuttavia viaggiare la storia dentro una bolla di sapone, che se il primo soffio di vento fuori dalla sala non se la porta via e quasi soltanto merito di una batteria di attori da applauso, con in testa una Paola Cortellesi (Alice) e un Raoul Bova (Giulio) in forma strepitosa spalleggiati da un Rocco Papaleo razzista fino a che non smette di crederci veramente che da solo meriterebbe la visione.

Originariamente pubblicato su Il Giornale di Puglia in data 3 aprile 2011

Nessuno mi può giudicare
Nazione: Italia
Genere: Commedia Durata: 95 min. Anno: 2011
Interpreti: Paola Cortellesi, Raoul Bova, Rocco Papaleo
Regia: Massimiliano Bruno

mercoledì 23 marzo 2011

Dylan Dog - Il film


Il nome “Dylan Dog” sulla porta a vetri risulta eroso dall’incuria sulla parte finale e la qualifica “Investigatore privato” subito sotto trova applicazione ormai più che altro nell’ambito delle infedeltà coniugali. Eh sì, perché le indagini sul soprannaturale e i faccia a faccia con i mostri, reali o dell’inconscio, non fanno più parte della vita di quello che un tempo veniva chiamato “L’Indagatore dell’Incubo”. Anche il campo d’azione si è spostato: Dylan si è lasciato Londra alle spalle per rifarsi una vita in quel di New Orleans, anche se sarebbe più corretto dire ‘per sopravvivere’ in quel di New Orleans, visto che gli incarichi non fioccano di certo. Ma all’ex poliziotto sembra non importare: ha messo il biglietto da visita con su stampato: “Niente battito? Nessun problema!” ad accumulare polvere da quando la sua fidanzata, Cassandra, è stata uccisa da un gruppo di vampiri che gli hanno armato il braccio e annientato nell’animo, e ora pensa solo a tirare a campare, non di certo incontrando in questo l’approvazione da parte del suo assistente Marcus.
Ma il mondo dell’ignoto, dell’irrazionale, non può privarsi troppo a lungo di un così valido antagonista, e all’occorrenza alleato, e si premura di tornare a fargli visita nelle graziose sembianze di Elizabeth, una ragazza che ha visto fuggire da casa sua una creatura mostruosa dopo aver rinvenuto il padre orribilmente assassinato.
Dylan non è intenzionato a ricascarci, e liquida la testimonianza della donna come frutto dello shock del momento. Salvo poi rimettere mano ai ferri del mestiere quando Marcus viene ucciso da quello che riconosce come un morso di licantropo. L’analisi di un ciuffo di peli che raccoglie da un albero di fronte all’abitazione di Elizabeth lo porta nella fabbrica di lavorazione carni gestita da Gabriel, capo dei lupi mannari, che gli consiglia, da amico, di non prendere a cuore il caso e di tornare alla vita di tutti i giorni.
Suggerimento disatteso all‘istante: Dylan non è di quelli che si tirano indietro, e presto le indagini faranno luce su manovre messe in atto da Vargas, boss dei vampiri, per appropriarsi di un antico manufatto custodito dal padre di Elizabeth, e trafugato dal suo assassino, in grado di richiamare sulla Terra Belaial, potente e sanguinario demone in grado di assicurare a chi lo riporta in vita il dominio assoluto.
Acquisiti i diritti, in terra d’America ci sono voluti circa una decina d’anni per trasporre su grande schermo le avventure di Dylan Dog, uno dei personaggi più amati del fumetto italiano, creato nel 1986 da Tiziano Sclavi per la Sergio Bonelli editore. Trame a prova di bomba e ricche di citazioni cinematografiche e letterarie, dove l’orrore e il fantastico irrompono con regolarità nel quotidiano e l’approfondimento psicologico non è un semplice orpello per invogliare alla lettura chi magari considera di livello inferiore la narrativa a disegni, stanno portando l’indagatore dell’incubo a spegnere le candeline dei 25 anni di uscita in edicola, e un film lo si attendeva con vero piacere.
Peccato che la Londra raccontata da Sclavi e dagli altri sceneggiatori della serie in questo Dylan Dog - Il film la si veda soltanto nel logo della casa di produzione, e se le differenze con l’originale si fermassero a questo si potrebbe anche chiudere un occhio, dato che la New Orleans poggiata su delicati equilibri di civile convivenza fra esseri umani, licantropi, vampiri e morti viventi ha un suo perché. Ma dove proprio l’appassionato non può che rimanerci male è nell’assenza del mitico braccio destro di Dylan, Groucho, ricalcato sulle fattezze del più divertente dei fratelli Marx e nel cambio di colore del Maggiolone ‘di famiglia’, da bianco del fumetto a nero con interni bianchi del film: uno sproposito di soldi per l’utilizzo dell’immagine di Groucho Marx e la Disney, i cui diritti della serie di Herbie permettono ai Maggiolini di colore bianco di presentarsi al cinema solo in pellicole prodotte dalla Disney stessa, hanno imposto drastici cambiamenti di rotta, e se per il Maggiolone si può magari chiudere (con dolore) anche l’altro occhio, per la sostituzione di Groucho con Marcus vien voglia di schierarsi dalla parte dei cattivi e scatenare Belaial.
Delusione, quindi? Non proprio: se ci si dimentica del nome ingombrante portato dal personaggio principale (per tacere di eccessi all’eroe d’azione estranei alla controparte cartacea), il film è scorrevole e ben fatto, con diversi momenti bizzarri (dettati anche dalla mancata accettazione dello statuto di zombie da parte di Marcus dopo essersi risvegliato all’obitorio) e una bellissima fotografia da noir. Solo, è un film americano che deve fare cassetta, e per questo studiato per piacere alle fasce più ampie di pubblico (con predilezione per gli adolescenti).
La questione, piuttosto, è un’altra: proprio, insomma, nella terra che è stata di Mario Bava, di Antonio Margheriti e di Lucio Fulci (giusto per citare qualche maestro) non ce la facevamo a mettere in piedi una produzione italiana? I nomi, che so, di Michele Soavi o di Lamberto Bava valgono ancora qualcosa? (sono fermamente convinto di sì).
Perché, allora?

Originariamente pubblicato su Il Giornale di Puglia in data 22 marzo 2011

Dylan Dog - Il film
Titolo originale: Dylan Dog: Dead of Night
Nazione: USA
Genere: Horror
Durata: 108 min. Anno: 2010
Interpreti: Brandon Routh, Sam Huntington, Anita Briem
Regia: Kevin Munroe.

sabato 26 febbraio 2011

Il cigno nero


Accompagnato da aspettative in (gran?) parte legate a indiscrezioni che volevano la rappresentazione di un dietro le quinte del mondo della danza classica illuminato da proiettori a luce rossa, Il cigno nero non tradisce ma fortunatamente neanche si fa comodo di sequenze che Darren Aronofsky deve aver girato senza darsi troppe preoccupazioni circa, e puntualmente arrivati, divieti ai minori.
Chiusura dell’ideale dittico inaugurato con l’acclamato e a suo modo struggente The Wrestler, Il cigno nero racconta la storia di Nina, giovane ballerina del New York City Ballet alla ricerca del ruolo che la possa far assurgere a stella di prima grandezza. L’occasione sembra arrivare quando il direttore artistico, Thomas Leroy, decide di aprire la nuova stagione proponendo una personale rivisitazione de Il lago dei cigni. Poter interpretare la doppia parte del Cigno Bianco e del Cigno Nero è di certo l’occasione di una vita, e Nina non intende lasciarsela scappare, forte di un’ottima padronanza delle tecniche di ballo e votata all’eserciziointensivo, sin quasi al martirio del corpo.
Ma la dedizione di Nina non sembra poter bastare: quando Leroy la chiama a sé e le indica Lily, una nuova ballerina della compagnia colta nella preparazione al ruolo da lei ambito, presentandola con le parole: "Lei è il sesso!", un profondo turbamento viene a soggiogarle l‘animo, accentuato dalla sorpresa di sentirsi poi sussurrare a un orecchio un consiglio da seguirsi a casa: "Toccati!".
Il coreografo ha visto giusto: Nina è perfetta per la parte del Cigno Bianco, e lo sarebbe anche per quella del Cigno Nero: è una bellissima donna, ma il suo voler raggiungere l’eccellenza la mortifica nella presa di coscienza di un desiderio dei sensi per troppo tempo tenuto all’angolo da stretti legacci e ormai impaziente di rompere furioso gli argini.
Sola nel suo letto, Nina prova ad ascoltare l’esortazione di Leroy, ma proprio un attimo prima di guadagnare la soglia della libertà un inopinato movimento della testa le fa vedere la madre, che dorme sul divano. E’ solo una frazione di secondo, ma basta a riprecipitarla in una condizione di 'vergogna' per tutto ciò che non riguardi lo studio e l’abnegazione nel perseguimento dell’eminenza artistica.
Ma le catene della colpa hanno comunque subito un profondo scossone, tanto da dimostrarsi di burro davanti all’entrata in scena di Lily, che si rivela poco a poco come il doppio oscuro di Nina, che prenderà per mano in un viaggio non più rinviabile fino alle radici più profonde delle sue nevrosi.
Thriller psicologico screziato da pennellate horror, Il cigno nero attenta sin dalla prima sequenza alle sicurezze del pubblico quanto alla tangibilità di quello che si va svolgendo sullo schermo, fino a identificare di fatto lo sguardo dello spettatore con quello di Nina, in una soggettiva in oscillazione perenne fra autenticità di vita, sogno e proiezioni dell’inconscio.
Generoso nelle suggestioni e a larghi tratti disturbante, Il cigno nero andrebbe visto anche solo per gioire della maiuscola interpretazione di Natalie Portman, che scolpisce una Nina da Oscar, ben assecondata da un cast superlativo, su cui spicca una Barbara Hershey che nel ruolo di Erica, mamma di Nina ed ex ballerina dalla carriera stoppata dalla gravidanza, è vinta da disturbi mentali che la avvicinano a una Baby Jane il cui non voler consapevolmente nuocere alla figlia in virtù di un rapporto quantomai morboso, non la rende meno terrificante del personaggio portato alla ribalta da Bette Davis nel classico di Robert Aldrich.

Il cigno nero
Titolo originale: Black Swan
Nazione: USA
Genere: Drammatico
Durata: 103 min. Anno: 2010
Interpreti: Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Winona Ryder, BarbaraHershey
Regia: Darren Aronofsky

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, su Il Giornale di Puglia in data 25 febbraio 2011.

giovedì 17 febbraio 2011

Il truffacuori



Sventola bandiera francese una delle sorprese cinematografiche del momento, Il truffacuori, che Pascal Chaumeil, esordiente nel lungometraggio ma con alle spalle un apprendistato alla corte di Luc Besson per Léon, Il quinto elemento e Giovanna d‘Arco, oltre alla regia di svariati film e serie per la televisione, confeziona attento a non giocare al ribasso con l’attenzione del pubblico.
La storia è quella di Alex Lippi e del suo lavoro non proprio rientrante fra quelli che si possono esibire sulla carta d’identità: disinnescatore di passioni amorose. In buona sostanza, il nostro viene ingaggiato da genitori, fratelli, sorelle e amici vari affinchè un fidanzamento inevitabilmente prossimo a un matrimonio che, a detta dei committenti, tutto farebbe tranne la felicità della sposa, possa naufragare senza rimpianti da parte della persona oggetto del bonifico bancario.
Il sex appeal e una studiata malinconica dolcezza fanno sì che l’attività di Alex non conosca fallimenti: le aspiranti mogli cadono ai suoi piedi (un bacio soltanto, però: l’etica professionale vieta di spingersi oltre) e una vita senza grossi problemi economici pare essere garantita.
Ma se già un posto fisso non sempre assicura di poter accompagnare fino alla pensione, figurarsi il dover contare su chi si preoccupa dell’altrui benessere: le commesse scemano pericolosamente e il ricorso allo strozzinaggio aumenta in proporzione, insieme alla per nulla allettante prospettiva di sentirsi prima o poi le ossa andare in frantumi.
Una via di fuga si presenta quando un assegno più che generoso viene staccato dal facoltoso padre di Juliette per far saltare le nozze della figlia con Jonathan, un ragazzo di famiglia altolocata e con preoccupazioni di denaro vicine allo zero.
Stavolta, però, la consumata professionalità di Alex e del suo team (la sorella e il marito di lei, che si occupano l’una della parte organizzativa, l’altro del reperimento delle informazioni circa vita, opere e gusti - che Alex deve fare suoi - delle future mancate spose, oltre che del supporto tecnologico) non bastano, perchè l’amore fra i due giovani è a prova di bomba e, colpo di scena, Alex forse per la prima volta si vergogna di quello che fa, dal momento che perde completamente la testa per Juliette.
Missione impossibile per il truffacuori, dunque, ma non per Pascal Chaumeil, che centra il bersaglio caricando la macchina da presa con un sapiente impasto di location sempre belle da guardare (Parigi, le dune del deserto, Montecarlo), ritmo a progredire e freschezza di invenzioni comiche, grazie soprattutto alle imprese del cognato di Alex, Marc (uno scatenato François Damiens, che per questo ruolo si è guadagnato una candidatura al César come miglior attore non protagonista).
La faccia da schiaffi di Romain Duris (Alex) e la bellezza irregolare di Vanessa Paradis (Juliette) hanno buon gioco ad accaparrarsi le simpatie dello spettatore e se verso la fine dei giochi si vira un po’ troppo sulle rotte della favola poco male: la ‘fuitina’ di Juliette con Alex alla vigilia del “Sì” a Jonathan in stile Innamorato pazzo (pazzo con due zeta), che trova una chiusa perfetta nella rivisitazione del balletto finale di Dirty Dancing sulle note di (I've Had) The Time of My Life, è un momento di cinema che fa stare bene. E tanto basta.


Regia: Pascal Chaumeil.
Interpreti: Romain Duris, Vanessa Paradis, Julie Ferrier, François Damiens, Hélèna Noguerra, Andrew Lincoln.
Titolo originale: L'arnacoeur.
Genere: Commedia.
Durata: 105 min.
Produzione: Francia 2010.

Originariamente pubblicato su Il Giornale di Puglia in data 16 febbraio 2011.

mercoledì 12 gennaio 2011

Che bella giornata


Cado dalle nubi è stato l’imprevedibile exploit comico del 2009, un acquazzone di buonumore che, partendo da una matrice tutta pugliese, ha in breve tempo - grazie allo strumento più efficace e scientifico a disposizione del merchandising: il passaparola - inzuppato fino alle caviglie lo Stivale tutto intero. Ora, a distanza di due anni, la nuova scommessa in formato panoramico del dinamico duo Zalone - Nunziante (Checco Zalone, all’anagrafe Luca Medici, e Gennaro Nunziante, entrambi baresi DOC), rispettivamente attore e regista di Che bella giornata, scalza in soli due giorni addirittura il primato di incassi di quello che la voce critica del periodo profetizzò essere il film che avrebbe cambiato la Storia del cinema: Avatar. Ci sarebbe quasi da gridare allo scandalo, ma James Cameron ha fatto certamente di meglio e di Nunziante non si può dire che non sappia il fatto suo (vedi, fra l‘altro, l’attività di autore per la coppia tritura ascolti Toti e Tata). E comunque sia, la distinzione tra cinema cosiddetto ’alto’ e cinema ’basso’, qualora esista sul serio, lasciamola a chi proprio non ce la fa a liberarsi dai sensi di colpa per essersi abbandonato a un’ora e mezzo di attentati all’integrità della mascella per il gran ridere, ’pericolo’ tra l’altro da affrontarsi senza necessità di difesa in quanto messaggero lieve, e per questo ancora più incisivo, di un invito all’apertura e alla conoscenza fra persone di diversa nazionalità.
Proprio quello che fa, e che non ti aspetti assolutamente che faccia, Checco, addetto alla sicurezza in una discoteca della Brianza che, partendo dal terzo e fallimentare tentativo di entrare nell’Arma si ritrova, in forza di equivoci a catena, a pattugliare l’area della Madonnina sotto l’egida della Santa Sede. Qui si imbatterà in Farah, una ragazza araba che progetta, insieme al fratello, di far saltare il simbolo di Milano per vendicare la morte della sua famiglia per mano di bombe italiane.
Checco, di origini pugliesi ma trapiantato ormai da una trentina d’anni a Milano, è quello che nei fumetti western verrebbe definito “un buon diavolo”, uno che non si fa carico di alcuna difficoltà nel chiamare al telefono lo zio carabiniere per ottenere favori e magari scavalcare la legge, ma capace anche di prodigarsi per il suo amico del cuore, che tiranneggia a dovere solo e soltanto per spronarlo nella ricerca dell’amore, e sostanzialmente inabile a far del male a qualcuno, se non involontariamente (vedi il rapporto Dreyfus - Clouseau con il maresciallo Mazzini). Una simpatia contagiosa completa il tutto e indebolisce alle fondamenta le certezze di Farah, che celati i propositi delittuosi dietro l’apparenza gentile di una studentessa di architettura, finisce per innamorarsi di quell’uomo così stravagante, agganciato soltanto su idea del fratello, Sufien, per spingerlo a portare inconsapevolmente una valigetta con dell’esplosivo in cima al Duomo.
La sceneggiatura firmata a quattro mani da Luca Medici e Gennaro Nunziante, come già per Cado dalle nubi, snocciola momenti di sublime quanto irriverente comicità (impagabili la prima sortita di Checco quale guardia del corpo del cardinale Rosselli nei confronti di un gruppo di monaci tibetani in visita e il suo approcciarsi all’arte per servirsene poi in modi che ondeggiano fra il censurabile e l‘improprio) che si fanno deflagrazione (giusto per restare in tema) quando si integrano con passaggi dai toni più inquietanti riguardanti certo i piani di Farah e del fratello ma anche due terroristi amici di Sufien che progettano di lasciare memoria del Big Ben solo in foto.
Se non è già di culto lo sarà prima che sorga il sole l’apparizione di CapaRezza alla festa di battesimo del nipote di Checco fra i trulli di Alberobello.

Originariamente pubblicato su Il Giornale di Puglia in data 11 gennaio 2011.

martedì 21 dicembre 2010

La banda dei Babbi Natale



Mirano alto Aldo, Giovanni e Giacomo per riconquistare agli occhi del pubblico e della critica una credibilità cinematografica incrinatasi non poco con la prova natalizia del 2008 Il cosmo sul comò. Prima dei titoli di testa, infatti, lo schermo si vede occupato nella sua interezza da una palla di vetro che fa scendere neve su una riproduzione dorata del Duomo di Milano, e qui la memoria non può che scivolare al celebre avvio di Quarto potere, con quella sfera e quella baita assediata da un turbinio di soffici fiocchi bianchi, simboleggiante l’infanzia strappata via a colpi di carta bollata a Charles Foster Kane. Ed è sulla giovinezza e sugli affetti perduti che si articola sostanzialmente questo La banda dei Babbi Natale, che prende le mosse dall’arresto, la sera della vigilia, del trio di protagonisti, sorpresi in flagranza di reato mentre, con indosso costumi da Babbo Natale, si danno alla scalata di un palazzo. Tradotti in questura, si daranno un gran daffare per chiarire a un’ispettrice - costretta a trattenersi in servizio, con buste della spesa cariche in dotazione, causa febbre a 40°del collega di turno (con certificato proveniente da una località di villeggiatura) - l’equivoco in cui sono caduti gli agenti, ripercorrendo le proprie vite fino a quel momento: Aldo convive burrascosamente con una donna che gli rimprovera il vizio delle scommesse e il suo essere un bambino mai cresciuto, oltre che disoccupato di lungo corso con scarsa inclinazione alla ricerca di un lavoro che non sia quello ’ideale’; Giovanni è un veterinario dal prestigio più esibito che reale, utilizzatore abituale del bagno di un autogrill, dove si cambia prima di lasciare l’Italia per la Svizzera, atteso da una ragazza, di facoltosa famiglia, che conta i giorni che la separano dal matrimonio, inconsapevole del fatto che l’uomo ha già una consorte a Milano; Giacomo, medico affermato, non riesce a dimenticare la moglie defunta, con conseguente difficoltà ad aprirsi all’amore verso una collega.
La regia di Paolo Genovese ben asseconda una struttura alla Quel pomeriggio di un giorno da cani e raccoglie il plauso anche per non disperdere, nel generale divertimento, diramazioni più riflessive veicolate da quella palla di vetro con il Duomo innevato.
Sempre affidabile Angela Finocchiaro, qui nel ruolo del sensibile funzionario di polizia che si fa carico delle confessioni a cuore aperto dei tre ‘malviventi’ seduti di fronte a lei ed esilaranti le apparizioni di una Mara Maionchi in versione ‘picchiatutto’ e di un Cochi Ponzoni dalla batteria del pacemaker affidata alle cure di un dottor Frankenstein in erba.

Regia: Paolo Genovese. Interpreti: Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Angela Finocchiaro. Genere: Commedia. Durata: 100 min. Produzione: Italia 2010


Originariamente pubblicato su Il Giornale di Puglia in data 21 dicembre 2010

sabato 11 dicembre 2010

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni


La sagace penna di Woody Allen torna ad arricchire il cartolaio consumando fogli su fogli nei riguardi di una Londra che per la quarta volta firma il contratto che la vincola a mettere su il palcoscenico ideale, dopo i brillanti risultati ottenuti con Match Point e Scoop, qualcosa in meno con Sogni e delitti, a rappresentare il nuovo atto della commedia umana che l’instancabile 75enne regista newyorchese continua a elaborare da una quarantina d’anni a questa parte.
Su uno spunto di partenza dato da una frase nel repertorio delle cartomanti: "Incontrerai uno sconosciuto alto e bruno" per non fare pesare i soldi spesi, seguiamo le stropicciate esistenze di Helena - sedotta dalle lusinghe di una veggente, appunto, dopo che il marito Alfie, sorpresosi una notte a pensare all’eternità e lasciatosi prendere da panico smodato, decide di riacciuffare la gioventù spedendo la chiave di casa alla rottamazione per arrivare infine a contrarre matrimonio con Charmaine, un’attricetta che fino a qualche tempo prima arrotondava con il mestiere e che, oltre a una testa che definire vuota sarebbe fin troppo generoso, non si impegna granché a far sì che il passato non torni a farsi vivo - e di sua figlia Sally, il cui ménage con Roy è messo a dura prova dall’incapacità di questi di dare seguito a un fortunato romanzo di esordio, oltre che dal voler rimandare troppo a lungo la scelta di rapporti sessuali senza protezione. E certo la cocciutaggine nel non voler soffiare via la polvere a una laurea in medicina non aiuta.
Due donne forti, Helena e Sally; ma di una forza che in un mondo perfetto avrebbero in orrore: l’una che la alimenta con un mazzo di carte assurto a dogma (lacerante e indimenticabile il primissimo piano di Sally alla constatazione che la madre è definitivamente perduta), l’altra con la sofferta accettazione che solo il divorzio può (forse) ricucire gli strappi di una vita spesa a incoraggiare il marito nonostante tutto e a riservare un posto di secondo ordine alle aspirazioni personali: leggi laurea in Storia dell’arte e desiderio di aprire una galleria, che avrebbe tutto da guadagnare da un fiuto come pochi nello scoprire nuovi talenti.
In mezzo: tradimenti prima solo immaginati e poi consumati (un’affascinante dirimpettaia di Sally e Roy); soltanto vagheggiati (Sally nei confronti di Greg, suo datore di lavoro presso una delle gallerie d’arte più quotate in città: commovente - forse la scena più bella del film - la gioia della donna nel provare un paio di costosi orecchini che Greg vuole regalare alla moglie e per i quali ha bisogno di un parere femminile); un crimine fra i più vigliacchi.
Commentato da una non invadente voce narrante, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni è una pellicola di ottimo intrattenimento alla quale spiace tuttavia non riconoscere piena soddisfazione: plasmati da Allen, certo, i personaggi, anche quelli di contorno, non possono non lasciare tutti il segno; il racconto oscilla senza fratture nette fra una prima parte più leggera e una seconda dai toni più drammatici, quando non tragici, e le battute divertenti non mancano, anche se francamente si possono contare sulle dita di una mano. Quello per cui ci si rammarica, e che di fatto inficia l’opera nel suo complesso, è la mancanza di un finale alle storie, umanamente appassionanti, di Alfie (che subirà la definitiva umiliazione nella decisione di far effettuare il test del DNA all’agognato figlio maschio), di Sally e soprattutto di Roy. Per loro nessuna illusione, solo scatole e scatole di medicine.

Regia: Woody Allen. Interpreti: Antonio Banderas, Naomi Watts, Anthony Hopkins, Josh Brolin, Gemma Jones, Freida Pinto, Lucy Punch. Titolo originale: You Will Meet a Tall Dark Stranger. Genere: Commedia romantica. Durata: 98 min. Produzione: USA, Spagna 2010

Originariamente pubblicato su Il Giornale di Puglia in data 11 dicembre 2010

domenica 21 febbraio 2010

Police Story


Il signor Chu è il più potente trafficante di droga di Hong Kong. Messi fuori combattimento i suoi uomini durante un’operazione di polizia e infine arrestato dall’ispettore Chan Ka Kui, la sola possibilità di garantirgli un lungo soggiorno nelle patrie galere è quella di rimettere in libertà la sua segretaria, Selina, e farla testimoniare contro di lui. Inutile a dirsi, sarà Chan a doversi fare carico della protezione del prezioso, e anche grazioso, teste.
Diretto da Jackie Chan, Police Story srotola fotogrammi ad alto tasso di partecipazione emotiva che scolpiscono sequenze che definire rocambolesche potrebbe non rendere assolutamente l’idea (splendida, senza mezze misure, la disintegrazione a colpi di automobili della baraccopoli a inizio film) e che rendono gloria alla storia del cinema d’azione con una figura di poliziotto, o meglio, di attore-regista, la cui temerarietà amoreggia con il sovrumano. Sì, attore-regista più che poliziotto: è infatti noto che Jackie Chan si mette in gioco in prima persona nei riguardi delle condotte più pericolose - tanto da conservare un Guinness dei primati per “Maggiori stunts fatti da un attore vivente” (fonte Wikipedia) –, e qui, nei panni dell’intrepido detective Chan, si esibisce in almeno due situazioni limite: l’inseguimento a piedi di un autobus con arrembaggio favorito dal manico di un ombrello e la discesa di cinque (se la dinamicità dell’azione non inganna lo sguardo) piani di un centro commerciale abbracciato a un palo fra cascate di scintille di un impianto di illuminazione trattato come peggio non si potrebbe (con buona pace, in quest’ultimo frangente, del pur ragguardevole Schwarzenegger di Commando).
Digressioni umoristiche da torte in faccia (tre, per la precisione, di cui due da parte della fidanzata May, subite dal risoluto funzionario in un arco di pochi minuti) non indeboliscono più di tanto l’avventuroso intreccio, riuscendo invece a maggiormente valorizzare una furia vendicatrice finale che non è neanche il caso tentare di descrivere.

Regia: Jackie Chan. Interpreti: Jackie Chan, Brigitte Lin, Maggie Cheung, Chor Yuen.
Titolo originale: Ging chaat goo si. Genere: azione. Durata: 101 min. Produzione: Hong Kong, 1985.