domenica 18 ottobre 2009

John Rambo



Quando non è solo la Tigre a essere ancora viva. A 61 anni Sylvester Stallone si rimette in gioco e dopo un decoroso sesto e ultimo capitolo dedicato a Rocky Balboa, il pugile italo-americano che nel 1976 gli asfaltò la strada del successo illuminandola a giorno con tre Oscar, torna nuovamente a rivestire, schivando il ridicolo, gli iconici panni di Rambo, il soldato reduce dal Vietnam e babau di quell'America che non accetta i suoi figli tornati dal fronte, quasi fosse una colpa aver servito la Patria e soprattutto non aver avuto il riguardo di morire per essa.
John Rambo ora trascina la propria esistenza catturando cobra, che poi vende a organizzatori di prove di coraggio, e percorrendo in battello il fiume Salween a scopo pesca o, all’occorrenza, trasporto persone. Il luogo del buon ritiro è la Thailandia settentrionale. Poco distante, al confine con la Birmania, si consuma il genocidio del popolo Karen a opera dello spietato esercito birmano. John Rambo lascia che gli echi della sofferenza, delle esecuzioni sommarie e degli stupri all’ordine del giorno, turpi risultati di una guerra giunta ormai al sessantesimo anno di età, gli scivolino addosso insieme agli amari ricordi del suo passato di combattente, prima riconosciuto dal Paese e poi utilizzato per missioni dove, se gli fosse accaduto qualcosa, soltanto i parenti stretti avrebbero saputo della sua esistenza.
Nel villaggio dove vive arrivano un giorno dei missionari americani che domandano di lui, della "guida americana del fiume". Il capo spedizione, Michael Bennet, un dottore, gli chiede di accompagnarli sulla sua imbarcazione lungo il Salween fino al punto da dove potranno, a piedi, raggiungere le colline dove si rifugiano i Karen e portare loro medicinali, generi di conforto e Bibbie. Dall'ultima volta che si sono avventurati in Birmania i militari hanno minato molti sentieri e quindi la via dell'acqua è al momento quella più sicura.
Non se ne parla neanche: Rambo non vuole immischiarsi in queste faccende e fa pesare loro il fatto che non avendo armi difficilmente potrebbero cambiare il corso degli avvenimenti. Ma è un cinismo di facciata: ha solo paura di dare anche solo la minima chance di riscossa all'imprinting alla guerra che incancrenisce il suo DNA.
Piove, una pioggia senza argini che se sommergesse il mondo sarebbe meglio; Sarah, fidanzata di Michael, prova a persuadere quell'uomo così silenzioso e sfuggente:"Deve pur credere in qualcuno. Deve ancora importarle di qualcosa".
Piove, ed è una pioggia che scioglie anche le ultime incertezze. Il giorno dopo il gruppetto è in viaggio. Rambo, a poppa, manovra senza proferire parola. Il suo viso non sembra tradire alcun interesse per quello che sta facendo. Falso: non ha voluto compenso e tutte le fibre del suo essere sono tese a captare il minimo segnale di pericolo. Una barca di pirati birmani li intercetta e li abborda. Rambo ce la mette tutta per quietare gli animi, ma quando il capo di quella banda di tagliagole si accorge che fra i passeggeri c'è una donna accade solo e semplicemente quello che deve accadere. "La guerra è naturale, è la pace ad essere un evento anomalo. È questa la realtà. Quando vieni spinto a farlo, uccidere è semplice come respirare".
Il guerriero preme per risorgere e quando, a distanza di neanche un paio di settimane, Arthur Marsh, pastore della Chiesa di Cristo in Colorado, lo mette a parte che i missionari non hanno più fatto ritorno e che, avute informazioni dai guerriglieri Karen e raccolti i fondi necessari, ha ingaggiato un manipolo di mercenari per andare a liberare i suoi uomini dal campo di prigionia birmano, non esita ad accettare di accompagnare quei soldati di ventura lungo il fiume. Ma non è solo l'essere una "fottuta macchina da guerra" a spingerlo a tornare in azione: quella donna, Sarah, lo ha colpito profondamente con la sua incrollabile dedizione alla causa e qualcosa, forse l’amore, torna a visitargli il cuore dopo tanto, troppo tempo.
Fotografia sintonizzata sulle frequenze di un incubo a occhi aperti, raccapriccio e indignazione: Sylvester Stallone si addossa per la prima volta l'onere della regia di uno dei suoi personaggi più amati dal pubblico di tutte le latitudini e per chiudere degnamente l'affaire Rambo imbastisce una storia che scandaglia una realtà poco conosciuta a livello mediatico, fino a confezionare un film 'dell'orrore' di indubbia tenuta spettacolare.
Stazza e statura di un autentico Golem della guerra, Rambo si riconsegna definitivamente al suo mondo nella emozionante e brutale sequenza che vede il reduce trafiggere con frecce scagliate con sovrumana perizia i militari birmani che stavano per infamarsi con l'ennesimo crimine contro i Karen. Il guerriero è risorto e non può (più) opporsi al suo destino: prima che la parola "Uccidi" possa essere cancellata dalla sua fronte occorrerà che le mani si riscaldino fino ad avvampare e diventare tutt’uno con il manico di un mitragliatore.

Regia: Sylvester Stallone. Interpreti: Sylvester Stallone, Julie Benz, Matthew Marsden.
Titolo originale: Rambo. Genere: Azione. Durata: 91 min. Produzione: USA 2008.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, su http://www.filmscoop.it/

mercoledì 16 settembre 2009

Batman: The Movie





Dal 1966 al 1968 la Fox produsse 120 puntate di una serie televisiva incentrata sulle gesta di Batman e del suo fedele compagno Robin, il ragazzo meraviglia. I telefilm, figli della deriva leggero-adolescenziale delle avventure a fumetti dell'uomo pipistrello operata tra la fine degli anni 50 e la prima metà dei 60, riscossero un forte successo, tanto da sedurre anche il grande schermo, che nel 1966 omaggiò i fan con un lungometraggio che trovava il suo punto di forza nelle funeste macchinazioni tramate per la prima volta all'unisono da quattro dei villains più rappresentativi del serial.
Batman: The Movie, diretto da Leslie H. Martinson, si scopre però nulla più che un sontuoso episodio fuori palinsesto, con inquadrature che fotografano dall'alto e in formato panoramico una inedita Gotham City e un Batman che può permettersi di penzolare in campo lungo dalla Bat-scala del Bat-cottero per saltare su uno yatch dal quale era arrivato un Sos.
La trama, che potremmo tranquillamente definire demenziale, vede il Dinamico Duo alle prese con il rapimento del Commodoro Schmidlapp ad opera dei più temibili criminali di Gotham: il Pinguino, Joker, l’Enigmista e Catwoman. Il diabolico scopo dei super malviventi è quello di sfruttare l’invenzione di Schmidlapp: un disidratatore in grado di prosciugare l’acqua contenuta nel corpo umano fino a trasformare il destinatario del trattamento in un mucchietto di polvere. Usato sui membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, avrebbe portato a un cospicuo riscatto per la loro riconversione in uomini. Questo il plot, dunque;lo svolgimento, in linea con le storie Tv, è puro delirio: colori sgargianti e da parco giochi, inquadrature sbilenche sui cattivi quasi a voler sottolineare un acceso disequilibrio mentale, riprese a 90 gradi di Batman e Robin che scalano muri rigorosamente in posizione orizzontale sul set, dialoghi che già racchiusi in una nuvoletta suonano ridondanti (un esempio su tutti: i due eroi, il commissario Gordon e il comandante O ‘Hara che commentano la fotolista dei criminali attualmente a piede libero su Gotham City), esplosioni di onomatopee sulle scazzottate.
Adam West (Batman) e Burt Ward (Robin) intelligentemente non fanno neanche finta di prendersi sul serio, in questo assecondati dal resto del cast, impedendo così al film di precipitare nel baratro del ridicolo e facendolo invece gravitare sul terreno della simpatica bizzarria. Che si premia anche di una capatina nelle regioni del cinema comico, in particolare del muto: a un certo punto Batman si trova a dover scegliere il posto più adatto per liberarsi di una bomba (tonda e dal colore nero) ma ostacoli in forma di suore, mamma con carrozzina, innamorati in barca e persino un gruppo di paperelle rischiano di fargliela scoppiare fra le mani.
Un Bat-consiglio, in chiusura: se ne trovate traccia nella programmazione delle varie reti, guardate Return to the Batcave: The Misadventures of Adam and Burt (2003). Si tratta di un film per la televisione che narra i retroscena del serial di culto ed è un autentico gioiellino.

Regia: Leslie H. Martinson. Interpreti: Adam West, Burt Ward.
Titolo originale: Batman. Genere: Azione. Durata: 105 min. Produzione: USA, 1966.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, su http://www.cineboom.it/

sabato 5 settembre 2009

Scoop


A Londra le lucciole non passeggiano tranquille: archiviati gli agguati di Jack lo squartatore, devono sfuggire ai mortali approcci di colui che le prime pagine dei giornali hanno battezzato il “Killer dei Tarocchi”, per via di quelle carte da gioco lasciate accanto ai corpi delle vittime.
A investigare sul caso, Sondra Prensky, giovane e grintosa studentessa di giornalismo aiutata da un anziano illusionista, Splendini, nome d’arte di Sid Waterman. La soffiata circa l’identità dell’assassino seriale nella persona di Peter Lyman, tra gli esponenti di spicco dell’aristocrazia cittadina, arriva da fonte certa quanto assolutamente fuori dall’ordinario: Joe Strombel, giornalista costantemente sul pezzo e di grande autorevolezza… passato a miglior vita e sfuggito alla sorveglianza della Morte per comunicare a Sondra, durante un esperimento di smaterializzazione operato da Splendini, le congetture della segretaria personale di Lyman circa il proprio decesso per avvelenamento dopo aver iniziato a collegare i delitti con taluni atteggiamenti del datore di lavoro.
Concepire un capolavoro all’anno, o suppergiù, non è certo impresa alla portata di tutti i registi: Woody Allen per un generoso periodo di tempo ha mantenuto alta la bandiera; poi, fisiologicamente e 'umanamente', l’ispirazione ha dovuto tirare il fiato, e anche una delle personalità tra le più influenti della cinematografia mondiale ha dovuto così realizzare opere non all’altezza delle lecite aspettative, sebbene sempre più che dignitose. Ora, uno "storico" cambio di location - Londra al posto della consueta New York - sembra aver giovato alla sagace penna dell’autore di Manhattan e di Crimini e misfatti, che dopo aver ambientato nella metropoli inglese il drammatico e crudele Match Point, architetta un giallo-rosa che non soffre particolari difficoltà a mantenere desto l’interesse grazie a una vivace girandola di situazioni che ben amalgamano il comico al thriller, con punte di genuina suspense.
Scarlett Johansson, dopo il folgorante e sensualissimo esordio alla corte di Allen in Match Point, si conferma nuova musa del cineasta statunitense, ed è talmente deliziosa e funzionale nei panni dell'aspirante cronista sulle tracce dello scoop del secolo, e perdutamente innamoratasi dell'oggetto dello stesso, che Woody sembra defilarsi fin quasi a dividere la scena con lei in qualità di spalla di gran lusso, e il suo Splendini, investigatore controvoglia, è tenero e magnifico quando si appropria di prodezze fino ad allora a lui sconosciute, quelle dell’uomo d’azione, e spinge a tavoletta la sua auto per correre in aiuto di quella che ormai considera la figlia che non ha mai avuto, minacciata da Lyman (un accattivante Hugh Jackman) su una barca nel lago privato dell'uomo in una sequenza che ammicca al Chaplin di Monsieur Verdoux.

Regia: Woody Allen. Interpreti: Scarlett Johansson, Woody Allen, Hugh Jackman.
Titolo originale: Scoop. Genere: Commedia. Durata: 96 min. Produzione: Gran Bretagna/USA, 2006.

lunedì 10 agosto 2009

Alta tensione


In una rinomata clinica psichiatrica arriva, fresco di nomina a direttore, il dottor Robert Thorndyke, psichiatra di fama mondiale insignito anche del premio Nobel.
I pazienti dell’istituto appartengono tutti al bel mondo e le succose rette fomentano gli appetiti di medici che, sorvolando allegramente sul concetto di etica professionale, si coalizzano con successo per nascondere al mondo l’eventuale guarigione dei loro assistiti.
Il neodirettore non ci mette molto a capire che l’ambiente che lo circonda nasconde più di qualche magagna e, aiutato dall’autista dell’ospedale e dalla figlia di uno dei ricoverati, cerca di ristabilire, peraltro gravato da un’accusa di omicidio diabolicamente costruita a tavolino, una legalità che pare ormai versare in coma irreversibile.
Dedicato al maestro della suspense Alfred Hitchcock, come avverte la scritta prima dei titoli di testa, Alta tensione si rivela una parodia delle opere del regista inglese ammirevolmente non sbilanciata sul versante del 'vilipendio', grazie alla conduzione di un Mel Brooks misurato come non sempre altrove e qui impegnato anche davanti la macchina da presa nel ruolo di Thorndyke. Influenzata in particolare dalle suggestioni de La donna che visse due volte (Vertigo, in originale) per via dell’acrofobia – ossia la paura delle altezze – che menoma il quotidiano vivere di Thorndyke, la pellicola di Brooks patisce qualche gag non funzionale al contesto ma è solo un peccato veniale: la trama, dopo una partenza non proprio irresistibile, si segue con piacere, alternando il gusto per l’assurdo a momenti di irresistibile umorismo (che contemplano anche il cinema nel suo farsi) oltre a ineccepibili riproposizioni quasi frame to frame di momenti cult della filmografia hitchcockiana.

Regia: Mel Brooks. Interpreti: Mel Brooks, Madeline Kahn, Cloris Leachman.
Titolo originale High Anxiety. Genere: Comico. Durata: 94 min. Produzione: USA 1977.

martedì 4 agosto 2009

Milano calibro 9


Figura di assoluto prestigio nel (ei fu) panorama del cinema italiano di genere, Fernando Di Leo, ispirato da alcuni racconti di Giorgio Scerbanenco, firma con Milano calibro 9, che con La mala ordina e Il boss compone la celebre “Trilogia del milieu”, quello che da più parti viene considerato il suo capolavoro, e che un cultore come Quentin Tarantino esalta, forse con una punta di esagerazione o forse no, come “Il più grande noir italiano di tutti i tempi”.
Certo è che la storia di Ugo Piazza, scrupoloso manovale del crimine sul libro paga dell’ "Americano” - temutissimo boss che lo ritiene responsabile della sparizione di trecentomila dollari frutto dell’ultimo scambio illegale di denaro prima che il suo sgherro decidesse, a suo giudizio, di farsi catturare come un dilettante dopo una rapina e di assicurarsi così una vacanza di tre anni, con rigoglioso avvenire, a spese dello Stato - si traduce in esaltante visione (valgano per tutti i minuti iniziali, commentati unicamente da inquadrature calibrate come tocchi di bisturi che inseguono la montante musica composta da Luis Bacalov), mai avara di colpi di scena, navigata da squarci di violenza non appannati dal fare cassetta e accarezzata da un insopprimibile romanticismo di fondo.
L’interpretazione di Gastone Moschin nei braccati quanto ostinati panni di Ugo Piazza, poi, è semplicemente di quelle che possono consacrare una carriera.

Regia: Fernando di Leo. Interpreti: Gastone Moschin, Barbara Bouchet, Mario Adorf. Genere: Poliziesco. Durata: 97 min. Produzione: Italia, 1972.

sabato 18 luglio 2009

Outlander - L'ultimo vichingo




Malgrado il caldo che obnubila i sensi, non può sfuggire neanche all’attenzione dei meno smaliziati fra quelli che, aperto il giornale, scorrono con l'indice l’elenco dei film quanto quell’aggiunta italiana, “L’ultimo vichingo”, all’originale Outlander possa prestare il fianco allo scetticismo: nella stagione in cui è più facile smerciare le giacenze di magazzino, l’assonanza con il megasuccesso, datato 1986, Highlander: L’ultimo immortale potrebbe infatti preludere con scioltezza al bidone, fra l’altro dissimulato (o meglio evidenziato?) da una locandina di discreto impatto alla Conan il barbaro. A sorpresa, invece, l’esordio sul bianco telone di Howard McCain, già regista di premiati cortometraggi e di lunghi per la televisione, non avalla il peggio anche in virtù di una sceneggiatura che riesce a scavalcare con efficacia le secche di un’ispirazione fin troppo debitrice nei riguardi delle storie aventi a protagonisti due autentici mostri (in tutti i sensi) sacri del cinema di fantascienza: Alien e Predator.
Pianeta Terra, anno 709 d.C.: Kainan (un incisivo James Caviezel) è un extraterrestre la cui astronave va a inabissarsi in acque norvegesi. Il suo compagno di viaggio perisce nell’incidente e non c’è traccia del Moorwen, una creatura che si nutre di distruzione e che, clandestina a bordo, ha provocato il malfunzionamento dei comandi.
Catturato da una tribù di Vichinghi al comando di Re Rothgar, Kainan, le cui fattezze umane non ne tradiscono la provenienza, dovrà dimostrare, con non poche sofferenze, di non essere una minaccia per la vita della comunità e, una volta accettato all’interno della stessa, organizzare la trappola per porre fine ai massacri perpetrati dal Moorwen.
McCain accende la complicità con lo spettatore agevolando una progressione drammatica svincolata da ambizioni d'autore e che fa ancor di più risaltare un copione che, se pur di non primissima mano, come già accennato, riesce tuttavia a risparmiarsi qualche 'dovuto' - si veda la reale identità di Kainan, che non viene mai rivelata ai suoi nuovi compagni di vita nonchè alla bella e assai valente nell’uso delle armi Freya, figlia di Rothgar, della quale si innamora, ricambiato – e a imbastire un sistema di apprendimento istantaneo della cultura umana del periodo a uso e consumo dell’ospite da un altro pianeta che più doloroso sarebbe stato difficile immaginare.

Regia: Howard McCain. Interpreti: James Caviezel, Sophia Myles, Ron Perlman, John Hurt.
Titolo originale: Outlander. Genere: Fantascienza. Durata: 115 min. Produzione: USA 2008.

domenica 12 luglio 2009

Planet Terror



Lungi dall’apparire un puro e semplice sfoggio di abilità nel muovere il mouse, il più massiccio piegare ad arte le mirabilie del digitale in modalità Old movie consente a Planet Terror, atto secondo del progetto Grindhouse, introdotto qualche mese prima da Quentin Tarantino con A prova di morte, di meglio risuscitare sugli smaliziati schermi di oggidì un modello di cinema, il Grindhouse, appunto, caratterizzato da trame assai poco edulcorate che fra gli anni 60 e 70, in America, trastullava il pubblico di solito con due film proiettati in sequenza (negli States e in Inghilterra si è potuto apprezzare il cimento di Tarantino e Rodriguez secondo questa modalità) e spesso flagellati da bruciature, spezzoni mancanti e svariati altri danni in ordine sparso originati da una cronica scarsità di copie, e quindi dall’intensivo sfruttamento delle stesse.
Il pirotecnico Robert Rodriguez sa di non poter contare su una sceneggiatura che faccia dell’originalità la propria carta vincente (di nuovo un atto di denuncia contro l’incontrollabilità di armi - di natura chimica, in questo caso - che dovrebbero 'proteggere' e che invece si rivelano esecutrici senza preferenza per alcuno della Signora con la falce, ancora un film sugli zombie) e sfugge con abilità la tentazione di farsene un cruccio.
No, questa del cineasta texano è una pellicola che abbiamo già visto tante altre volte e magari ci è anche piaciuta di più, ma che non possiamo costringerci a non rivedere: le traiettorie della macchina da presa sulle imprescindibili coordinate di Romero, con generose porzioni di prelibatezze carpenteriane e una nube verde che tramuta in famelici mostri che pare arrivare dritta dal cult I Diafanoidi vengono da Marte del nostro Antonio Margheriti fanno di Planet Terror una trasferta nei territori della paura di allarmante (per i nervi e lo stomaco del pubblico) efficacia.
Rose McGowan regala a Cherry Darling un’avvenenza che lacrime avverse a tentazioni di compatimento non fanno che esaltare e una stella nel firmamento delle donne in azione fra la Ripley di Alien e la Alice di Resident Evil. La sequenza che vede il suo ex innestarle un mitra al posto della gamba destra che uno zombie dalle sgraziate maniere aveva deciso di consumare per cena non sfigurerebbe in una lista delle dieci scene d’amore più bizzarre di sempre.
All’epoca, di Terminator 2 - Il giorno del giudizio si scrisse che era un film violentissimo contro la guerra. Con gli opportuni distinguo, stesso discorso potrebbe farsi per Planet Terror, che, di fatto, provoca sincero disturbo non nella scrupolosa sequela di morti ammazzati quanto nel brano che vede, in un ospedale, sciorinate su un monitor le menomazioni che affliggono i soldati coinvolti nella campagna in Iraq.






















Il Cavaliere Oscuro



"… nel mio ventre la creatura si contorce e ringhia e mi dice di cosa ho bisogno…”.
Questi i pensieri che accompagnano per le strade di una Gotham City ormai sconfitta dalla criminalità un Bruce Wayne sessantenne, assediato dagli acciacchi dell’età e da dieci anni volutamente congedatosi dal suo alter ego mascherato, in quel portento disperato/dark della letteratura a fumetti che è Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller (1986).
La bestia, Batman, il pipistrello fattosi castigo, doveva avere sicuramente vita più facile nell’età gagliarda del miliardario e filantropo Bruce Wayne, quando la vendetta era lungi dall’allentare la sua ossessiva morsa nei confronti di un uomo che una rapina sfuggita al controllo aveva privato, a otto anni, dei genitori all’uscita da un cinema.
Capitolo numero 6 delle avventure del vigilante mascherato creato da Bob Kane e Bill Finger e apparso per la prima volta nel maggio del 1939 sulle tavole del numero 27 di Detective Comics, Il Cavaliere Oscuro onora in pieno il titolo presentandoci un uomo pipistrello mai così accanito contro l’illegalità e un Bruce Wayne sempre più sull’orlo di una crisi di coscienza.
A Gotham City la mafia ha esteso i suoi tentacoli un po’ dappertutto, forze dell’ordine comprese, e i fiumi di dollari risultato dei suoi turpi traffici saturano i caveau delle banche prescelte.
Oltre Batman, comunque aspramente criticato dai media per i suoi metodi repressivi assai poco riguardosi nei confronti della 'dignità' e dei 'diritti' del malfattore, l’unico baluardo a difesa dell’ordine pubblico è il nuovo Procuratore Distrettuale Harvey Dent, che, incorruttibile e dal sorriso sincero e profondamente telegenico, conduce, in accordo con il tenente James Gordon, un blitz che porta al sequestro di tutto il denaro della mafia. Salvo poi prendere atto che i soldi sono falsi (nelle mazzette ci sono anche banconote segnate da Batman per l’operazione) e che il contante è protetto all’estero dall’autorevole contabile della Piovra.
Ordinaria amministrazione, insomma, fra i grattacieli di Gotham. Solo, malviventi che sfoggiano il doppiopetto e hanno parole d’amore solo per il libretto degli assegni risultano decisamente 'volgari' agli occhi cerchiati di nero di colui che ritiene sia arrivato il momento, per la città, di vantare un criminale davvero 'di classe': il Joker.
Sguardo animato da lucida follia, capelli verdi, viso pittato di bianco, denti giallognoli, abito e modi da consumato attore del teatro dell’assurdo e labbra macchiate di rosso stirate in un ghigno perpetuo da profonde cicatrici eredità di antiche sevizie, il Joker, ispirato nella sua origine fumettistica al personaggio interpretato da Conrad Veidt nel film del 1928 L’uomo che ride, bassezza dopo bassezza riesce a portare Gotham sull’orlo della catastrofe morale e materiale.
Sì, perché nel suo farsi paladino della causa mafiosa contro Batman e la legge, in realtà il malefico clown si fa beffe di tutto e tutti bruciando il suo compenso (la metà dei soldi della Piovra) con in cima alla catasta il ragioniere della mafia imbavagliato e legato a una sedia, certificando così di agire solo e soltanto in nome dell’anarchia più slegata dai ma e dai perché - “Alcuni uomini non cercano cose logiche, come il denaro. Non possono essere comprati, comandati o contrattati. Alcuni uomini vogliono solo vedere bruciare il mondo.” - e assumendo, nell’offrire una simbolica rappresentazione dell’Uomo in quanto animale avvezzo a immolarsi sull’altare della ricchezza, statura di osceno semidio.
Psicopatico senza carta d’identità, Joker è, storicamente, l’avversario principe del raddrizzatorti in maschera. E i due sono più simili di quanto non possano pensare. Meglio, di quanto il giustiziere non possa considerare.
“Tu mi completi”, dice il malefico pagliaccio a Batman, non potendo affermare verità più vera, dal momento che un sempre più crepato divisorio etico impedisce allo squilibrio mentale dell’uomo pipistrello di fare carne da macello dei suoi nemici.
Il Joker certe finezze comportamentali non le conosce neanche per sentito dire e, in questo Cavaliere Oscuro, non deve neanche affannarsi più di tanto per dimostrare agli onesti cittadini di Gotham quanto la loro probità sia solo un’astrazione da libro dei boy scout: scatena, infatti, una tribale caccia all’uomo quando chiede la vita di un impiegato delle Industrie Wayne, reo di aver dichiarato in televisione di aver scoperto l’identità di Batman, minacciando di far saltare l’ospedale di Gotham in caso di mancata risposta.
Non pago, riesce persino a far evacuare la città sotto la minaccia di attentati esplosivi, e, una volta al largo su due navi distinte la gente perbene e i detenuti, annuncia di aver collocato sulle imbarcazioni due bombe il cui timer può essere stoppato liberamente… salvo causare la distruzione della nave che non lo ha disattivato per prima. E tutto questo solo perché desidera che Batman si umili togliendosi la maschera e facendosi finalmente da parte.
Figurarsi, a questo punto, come deve sentirsi un crociato della giustizia quando coloro che ha giurato di proteggere lo guardano in cagnesco, quando non lo combattono apertamente. E la parte finale del film, in quest’ottica, è fra le più lugubri e malinconiche che un falso blockbuster come questo possa vantare.
Caos totale, quindi, a Gotham, atmosfere post 11 settembre e capolavoro di abiezione quando Joker, facendo in modo che metà faccia gli venga sfigurata dal fuoco, riesce a portare al lato oscuro persino l’integerrimo Harvey Dent, dando vita al pericoloso criminale che il mondo conoscerà come Due Facce.
Non c’è che dire, dopo Batman Begins, Christopher Nolan si conferma (fatti i doverosi distinguo) successore unico di Tim Burton al timone delle avventure dell’uomo pipistrello: un Autore in grado di rendere palpitanti sullo schermo le asperità e le incongruenze dell’umano agire, unitamente a incisive, e amare, riflessioni sul Bene. Che ha avuto la sgarbatezza di non avvisare quando è dipartito da questa valle di lacrime.


Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di Luglio 2008.

Sfida senza regole



Al Dipartimento di Polizia di New York la sensazione è quella di bufera in fatale approssimarsi: una sequela di morti ammazzati con gettati accanto ai (o nei) corpi una pistola, la stessa per tutti, e un foglietto con su vergata una poesia con motivazione in rima del trapasso sono certo quanto di più lontano da una buona pubblicità in termini di sicurezza pubblica.
Per tacere della rispettabilità, dal momento che la pista seguita dagli investigatori sembra indirizzare verso il Corpo stesso. Un poliziotto serial killer giustiziere, insomma, che si farebbe carico, a stock di armi rubate e fantasiosi componimenti, di disinfettare le strade dalla feccia che i grossi buchi nelle maglie della legge hanno permesso potesse continuare a camminare e delinquere indisturbata.
Le indagini vengono affidate ai detective Turk e Rooster, trent’anni di unghie sotto le quali la melma ha assunto la colorazione della carne e che vedono l’orologetto della pensione prendere con un sorriso sempre più largo e indisponente le misure del loro polso.
I due sono i migliori in quello che fanno, ma le giovani leve non scaldano di sicuro la panchina: i detective Perez e Riley smaniano la luce dei riflettori e si deve alle congetture del primo il possibile coinvolgimento di un collega nei delitti.
Questi, in estrema sintesi, come si conviene per una trama gialla, gli eventi attorno ai quali ruota Sfida senza regole, onesto poliziesco che si fa evento dell’anno per il pazzesco colpo messo a segno dal regista Jon Avnet (Pomodori verdi fritti - Alla fermata del treno, L’angolo rosso, 88 Minutes), ossia il coinvolgimento, nei panni di Turk e Rooster, di, rispettivamente, Robert De Niro e Al Pacino, due leggende viventi alla prima esperienza di recitazione insieme per gran parte della durata di un film. In passato, riportano le cronache, solo due volte Lennon e McCartney (come vengono soprannominati nella pellicola in questione) avevano calcato lo stesso set: Francis Ford Coppola li volle nel 1974 ne Il padrino - Parte II senza tuttavia farli mai incrociare e Michael Mann li diresse nel 1995 nell’action-capolavoro Heath - La sfida, dove giusto un paio di scene su più di due ore e mezzo di proiezione li registravano in deflagranti faccia a faccia.
La sceneggiatura architettata da Russel Gewirtz parte d’atmosfera con l’alternanza nei titoli di testa di dettagli, primi piani e assieme dei due protagonisti impegnati in una complice esercitazione al poligono che si traduce in ideale summa di tanto loro cinema al color di polvere da sparo, per poi principiare un tormentato scavo nelle ambigue modalità di esecuzione di un mestiere che di lindo e pinto al cinema ha spesso solo il giuramento, che assolutamente non prevede nella sua formulazione l’opportunità di un bavaglio alla correttezza dettato dalla fabbricazione di prove false, unici grimaldelli per inficiare testimonianze viziate da una paura che si fa invisibile solo alle fredde pagine di un codice.
Temi etici squassanti quelli proposti da Gewirtz, che non ha avuto però l’accortezza di sfruttare tutto l’inchiostro della penna usata per il copione di esordio, quello di Inside Man: alcuni passaggi pagano una nebulosità scambiata per stimolante detto non detto e le parentesi erotico-sadomaso fra un De Niro che (apprezzabilmente, come anche Pacino) non nasconde la sua bella età e un’ammaliante e volitiva componente della squadra CSI, Karen Corelli, non sfuggono all’impressione di riempitivo.
All’attivo contiamo uno squisito gioco di attori (tirano fuori le unghie Carla Gugino, John Leguizamo e Donnie Wahlberg) che genera personaggi concreti nelle loro pulsioni e passioni, l’autorità di un altro grande vecchio del cinema da duri quale Brian Dennehy e una gagliarda autoironia circa la resistenza delle serrature di una volta.
Jon Avnet gira con un’esuberanza contrattualizzata al minimo sindacale, ed è un peccato. E’ vero che Al e Bob si dirigono da soli e che il braciere dell’attenzione lo attizzano a dovere fino al lancinante finale, a mente fredda unico momento realmente orchestrato sulla tensione, ma se la giustizia al di là della giustizia di Sfida senza regole fosse stata soppesata da un Martin Scorsese, sicuramente staremmo rubricando l’ennesimo, necessario, capolavoro.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di Ottobre 2008.

Gran Torino



78 anni e non farseli pesare. Per quello che, a quanto riportano le cronache, potrebbe essere il passo d’addio al cinema come attore, Clint Eastwood sceglie un soggetto “come al solito” poco consigliabile a chi smania di affogare nel buio di una sala per accordare la libera uscita al cervello. Film da vedere con lo stato d‘animo sintonizzato sulla giusta frequenza, allora? Non proprio, dal momento che Gran Torino è, anche, opera parecchio divertente. Sì, proprio così: si ridacchia e non difetta la risata di gusto. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che il magnifico Clint convoglia nello scostante e apertamente razzista (ma è difesa; solo e soltanto, alla fine, sgretolabile difesa) Walt Kowalski - uno che la guerra in Corea ha 'onorato' di una medaglia che da tempo, o forse dal primo giorno, ha come unica valenza quella di accompagnare le sue notti e i suoi giorni tenuto per mano da fantasmi che un tempo avevano volto e carne del 'nemico' - una eccitante sintesi dei personaggi incarnati nell’arco di cinquant’anni di luminosissima carriera, ispettore Callaghan in testa. Ed è cosa nota che Harry la carogna non si morde di certo la lingua.
Pellicola, come gran parte della filmografia eastwoodiana, implacabilmente destinata all’empireo dei classici, Gran Torino rifulge di una trascinante mezz’ora finale ritmata sulle suggestioni di una (im)possibile riconquista di un altro ieri frequentato da muli suscettibili che sempre pensavano si ridesse di loro e da poliziotti che esortavano delinquentelli di mezza tacca a farli contenti, e culminante in una 'resa dei conti' di struggente lirismo.

The Mist


Avvertenza numero uno: The Mist è un film che picchia, e forte. Astenersi spettatori dell’ultima ora o chi si vanta che più gli altri se la fanno sotto, più lui se la ride.
Avvertenza numero due: disdire la prenotazione al ristorante o in pizzeria, dal momento che sui titoli di coda si rimane atterrati, e atterriti, sulla poltrona e si aspetta solo il momento che la forza di volontà coordini i movimenti per tornarsene a casa a meditare su quanto la razza umana possa davvero risultare aberrante.
Raccomandazione unica: The Mist è maledettamente imperdibile.
Alla sua terza traduzione per il grande schermo, dopo Le ali della libertà (1994) e Il miglio verde (1999), di un’opera di Stephen King, fra i massimi autori contemporanei sui temi dell’horror e del mistero, Frank Darabont sterza nelle lande della paura più viscerale, pur senza rinunciare al lirismo magico che ha reso grandi e indimenticabili i due titoli sopra citati.
Una piccola città del Maine viene strapazzata ben bene da un temporale che lascia a ricordo alberi divelti e danni non di secondo piano. Fin qui tutto bene, può succedere.
Quella invece un po’ più fuori dall’ordinario è una grossa distesa di nebbia che avanza dal lago e che presto invade le strade, costringendo, nello specifico, un nutrito gruppo di clienti, anche forestieri, a guardare da dietro i pannelli di vetro del supermercato locale senza poter uscire.
Certo, si potrebbe tentare di raggiungere la propria auto, ma se dalla densa coltre bianca corre all’ingresso un uomo dal naso ridotto a una fontana zampillante sangue e che urla di qualcosa che ha preso il suo amico, non apparirebbe avventato rimandare il proposito. Quando poi dalla saracinesca sul retro si fanno sgraditi ospiti dei giganteschi tentacoli animati dalle peggiori intenzioni, il terrore compromette a passo sempre più spedito la razionalità. E una fanatica religiosa si dimostrerà la nemica più mortale.
Il carrello di apertura scopre una citazione e un omaggio allo stato dell’arte, visto anche il mestiere del protagonista principale, Dave Drayton, un disegnatore di manifesti cinematografici: uno dei pannelli sul muro dello studio di casa, riproducente la figura di uomo utilizzata per la locandina del film La cosa, ricorda John Carpenter, che nel 1980 terrorizzò le platee con Fog, storia di un manipolo di marinai che la bruma riporta dalla morte per vendicarsi dei discendenti degli abitanti di Antonio Bay, responsabili della loro dipartita cento anni prima; una tela in corso d’opera ossequia invece King nel ritratto di Roland, il pistolero della fortunata saga fantasy-western La torre nera.
Due generi, questi ultimi, che risaltano prepotenti, assieme alla fantascienza dei mondi paralleli, in questo film dell’orrore disturbante veramente come pochi, almeno di questi tempi di cinematografiche paure trattate a iniezioni di pixel e di ironia per un pubblico che si intende preservare da scossoni, magari non leniti da un gratificante bacio finale, che potrebbero risultare dannosi per la salute… degli incassi.
Ansiogeno scambio di suggestioni tra l’assedio di Un dollaro d'onore e quello di Distretto 13 (Carpenter, ancora), i bozzoli di Alien e Il Ciclo di Cthulhu di Howard Phillips Lovecraft, The Mist si compiace del privilegio di poter confinare cotanti illustri precedenti a mero contorno di una vicenda dove l’autentico cazzotto allo stomaco viene sferrato dalla varia umanità intrappolata nell’emporio, che vede la patina del vivere civile che fino a qualche ora prima ricopriva solida la vita di tutti i giorni, sfaldarsi e venire soverchiata da quell’egoismo e da quella crudeltà latenti comunque sottopelle e che si affrettano a marcire forte gli animi quando c’è in palio la sopravvivenza.
Quell’impronta di una mano fattasi sangue non per extraterrena volontà sulla porta di ingresso del market turberà a lungo i nostri giorni, e il prefinale, che ribalta oscenamente beffardo l’assunto portato all’Oscar da tal Roberto Benigni, non si abbandona a pietà alcuna.


Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano Il levante nel mese di ottobre 2008.

martedì 2 giugno 2009

Star Trek




“Galoppare nelle galassie è un gioco da giovani”, risponde l’ammiraglio James T. Kirk, fintamente rassegnato alla scrivania, a un dottor McCoy che gli aveva chiesto se non fosse più semplice far governare l’Enterprise a un equipaggio esperto (leggi: la vecchia guardia) invece di affrontare continui danni alle strumentazioni dovuti al test della Kobayashi Maru, irrisolvibile esame atto a testare le capacità decisionali degli aspiranti capitani di navi stellari.
Accadeva in Star Trek 2 – L’ira di Khan, uno dei lungometraggi meglio riusciti dedicati al mondo partorito per la televisione (1966-1969, 79 episodi) da una lucida intuizione di Gene Roddenberry. Oggi, dopo 10 pellicole per il grande schermo, spin-off per la Tv - dove si conta persino una riduzione a cartoni animati - ed espugnati i restanti media a disposizione con romanzi, fumetti, videogiochi e quant’altro, J.J. Abrams risolve alfine di non contraddire Kirk e accomodarlo sulla poltrona che gli è più congeniale, quella del comando, e di fargli ordinare: “Propulsori avanti tutta!” con il tono di voce non incrinato dal numero di compleanni.
Autorità di primo piano nel campo della serialità televisiva per aver dato il la a titoli quali Lost, Felicity e Alias, e non sconosciuto al bianco telone, oltre che per trascorsi da sceneggiatore, anche per aver tenuto la barra di comando della terza missione impossibile di Tom Cruise e per l’ideazione di quel Cloverfield che tanto ha fatto tremare e nauseare le platee, causa il girato tutto in soggettiva del cameraman in fuga dalla furia distruttrice di un parente di Godzilla, Abrams, nell’affrontare l’undicesimo capitolo di una delle serie di fantascienza più amate di sempre, affida a un trentenne Kirk orfano di padre e in perenne rotta con il mondo, fortemente indeciso circa la propria iscrizione all’Accademia della Flotta Stellare, incoraggiata dal capitano dell'Enterprise Christopher Pike, e che stringe fra le dita, inclinato verso il basso, un modellino di quella gloriosa astronave lasciandone scivolare via la polvere, una precisa dichiarazione d’intenti, espressa con il ricorso a una figura narrativa fra le più usuali nelle avventure di James Tiberius Kirk e soci come il viaggio nel tempo, mediante l’irruzione dal XXIV secolo di una nave spaziale con equipaggio romulano in cerca di vendetta per il loro pianeta natale, Romulus, ridotto in cenere da una supernova che deflagra prima del tempo previsto dall’ambasciatore Spock per poterla fermare con una inoculazione di materia rossa.
Abrams ha affermato a ogni anteprima per la stampa e per il mercato della pubblicità di alcuni segmenti del film di non essere un fan di Star Trek, e il giocare con la porta del tempo gli consente così impennate di rotta epocali (si veda il destino di Vulcano, pianeta di Spock) e intriganti variazioni sul tema, la più 'sconvolgente' delle quali coinvolge ancora il vulcaniano dalle orecchie a punta, qui più vulnerabile alle lusinghe della sua metà umana (per parte di madre) a scapito della proverbiale mancanza di emozioni che, favorendo il ricorso alla logica, contraddistingue fortemente la sua razza. Se poi registriamo un tenero sentimento d’amore fra l’alieno e il tenente Uhura, davvero questo Star Trek riscrive la saga dalle fondamenta fino a illuminare lo schermo di un numero zero a tutti gli effetti, e preparando tutta una nuova generazione di spettatori all’imbarco per una seconda missione quinquennale “fino ad arrivare laddove nessun uomo è mai giunto prima”.
Le affinità del manifesto promozionale con quello del capostipite cinematografico di Robert Wise del 1979 esaltano differenze che si sposano gioiosamente con la tradizione, tratto che distingue un’opera pienamente godibile sotto tutti gli aspetti realizzativi e appena forse compromessa da inserti alla Guerre Stellari che, pur fortemente voluti dal regista, non sempre ruotano in sincrono con l’epica dell’universo di Roddenberry.
C’è pero qualcosa che, a voler essere pignoli, non quadra durante la visione: perché, ad esempio, quando ci avviciniamo per la prima volta all’Enterprise ancorata nell’hangar spaziale non viviamo quella commozione che debordava dai fotogrammi di Wise? Perché una serpeggiante impressione di freno a mano tirato, volendo esagerare e nonostante l’emozione di ritrovare lo Spock di sempre, Leonard Nimoy, che lo sconvolgimento temporale permette di apprezzare in un cameo più che generoso?
Ma certo, è chiaro: il filtro fra il Mito e il credo personale: solo un non trekker come Abrams poteva simulare (sì, proprio così: simulare) il distacco necessario a sciogliere poi i cuori con uno dei 'colpi bassi' più imperdonabili che mai se fosse venuto a mancare: l’immortale “Spazio, ultima frontiera…” che apre gli episodi Tv, modulato stavolta dalla voce di Nimoy, che, prima dei titoli di coda, accompagna le inquadrature dell’Enterprise, pronta a spiccare il balzo interstellare dopo aver finalmente riunito l'equipaggio storico ai comandi del fresco di nomina capitano Kirk e “diretta all'esplorazione di nuovi mondi, alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà…”.
Bentornati, amici. Lunga vita e prosperità.

venerdì 22 maggio 2009

I segni del male



Katherine Winter di professione smaschera fenomeni che hanno del miracoloso riconducendoli nei più razionali lidi delle spiegazioni scientifiche; ricco carnet di vittorie e una volitività che ne fa una figura da prendere a esempio. Katherine Winter è stata una suora protestante sino a cinque anni prima, la sua fede in Dio e l’assoluta convinzione di dover fare la cosa giusta l’avevano spinta, con marito e giovane figlia, in un villaggio del Sudan a prestare soccorso alla popolazione bisognosa. L’Onnipotente, o l’Angelo caduto, la mettono alla prova: l’arrivo della famiglia porta un anno di siccità, morte e sofferenza. La soluzione sembra essere solo quella di offrire in olocausto il marito e la figlia di Katherine, che non può fare niente per salvarli. Katherine Winter, adesso, non crede più né a Dio né al Diavolo, la sua vita è protesa al continuo dimostrare al mondo che l’uomo alla fine dei suoi giorni dovrà rendere conto solo a sé stesso. Una telefonata da chi non avrebbe più creduto di sentire, però, può rimettere in discussione tutto: padre Costigan, suo amico di vecchia data, le comunica, fortemente preoccupato, di aver recuperato delle foto di lei con la figlia, e il suo volto in ognuna di quelle immagini è consumato dal fuoco, fenomeno al quale si è trovato anche ad assistere di persona. I ritratti, messi insieme, formano una croce che termina in una falce, simbolo di una setta satanica dalle origini millenarie e segno del cielo secondo il religioso, che sta mettendo in guardia la donna. Ma sono parole perse nel vento: Katherine ha ripreso a dormire da quando ha smesso di pregare e non ha alcuna intenzione di ritornare sui propri passi. Scienza e raziocinio sono il suo unico credo, ora.
Qualche giorno dopo, la scienziata riceve la visita di Doug Blackwell, un insegnante di Heaven, pacifica cittadina della Louisiana dove, all’improvviso, a seguito della morte per annegamento di un ragazzo, il fiume si è tinto di rosso. La popolazione locale, devota a Dio al limite del fanatismo, è convinta che la causa di tutto sia da ricercarsi in una dodicenne che, a parer loro, ha dapprima ucciso il fratello e poi operato il sortilegio.
L’opinione comune è che la ragazzina, Loren McConnell, figlia di madre single e sospettata di satanismo, sia nientedimeno che l’emissaria di Satana sulla Terra, e che il fiume rosso sangue non sia altro che la riproposizione, di lì a breve, delle dieci piaghe d’Egitto. Katherine è ovviamente scettica ma decide di intervenire e parte alla volta di Heaven con il suo socio Ben, un omaccione di colore con un passato di delinquenza giovanile e un presente e un avvenire di redenzione.
Stephen Hopkins dirige con polso fermo un film che avrebbe potuto tranquillamente prendere, visto l’argomento trattato, la scorciatoia del gran baraccone carico di effetti speciali senza nerbo narrativo. Fortunatamente così non avviene e possiamo invece godere di un robusto thriller dell’anima con una Hilary Swank convinta e convincente nei panni di una detective dell’occulto che si ritrova a investigare soprattutto su sé stessa: gli insistiti flashback sulla tragica esperienza vissuta in Sudan ad opera di un massiccio indigeno dalle orbite vuote e grondanti sangue sembrano essere un pressante invito ad “aprire gli occhi”, a reimparare a vedere le cose nella loro esatta prospettiva senza il filtro dell’ottusità, di qualunque natura essa sia. E il fatto che sia la presunta serva del demonio a mandarle quegli input può forse voler dire qualcosa di molto serio. Segnalazione di merito per AnnaSophia Robb che dona al suo personaggio di bambina scatenatrice delle piaghe bibliche un alone di forte mistero unito a una presenza scenica notevole. La giovane attrice riesce a tenere testa alla consumata professionalità della Swank e i loro momenti di confronto evocano quella sofferta complicità che ci può essere tra una madre e una figlia rifiutata dalla società perché 'diversa'. E se questa diversità è opera del Maligno l’unica soluzione è quella del linciaggio. Non è assassinio bensì giustizia divina se uomini e donne armati si scagliano su una giovane che, all’apparenza, fa piovere rane dal cielo e scatena un assalto di cavallette contro i suoi persecutori in una sequenza fra le più potenti del film. Una scena che preme sul petto e provoca autentico raccapriccio.
E’ solo nell’esagerato prefinale, debitore de I Predatori dell’Arca Perduta, che Hopkins paga pegno a un cinema più fracassone. Ma è solo un peccato veniale: il finale, girato in punta di cinepresa, aggiusta il tiro e ci regala una genuina scarica gelata lungo la schiena.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, su http://www.cineboom.it/

La Maschera del demonio


Anno 1960. Nei cinema i fasci di luce dei proiettori riversano sul pubblico le inquietanti fasi di un rito tristemente noto nei tempi passati: l’esecuzione di una donna rea di avere intrattenuto rapporti con Satana. Siamo nella Moldavia del 1600: Asa, ritenuta una strega in odore di vampirismo, viene sottoposta dal grande inquisitore, nello specifico suo fratello, che la ripudia, al supplizio della Maschera del demonio, orribile strumento di morte che ha le fattezze di una faccia di satanasso irta di grossi chiodi che viene conficcata nel volto della sventurata vittima. Le fiaccole e i fulmini illuminano con guizzi spettrali la macabra scena, la musica monta e qui Mario Bava, al suo esordio nella regia, piazza un magistrale coup de théâtre: la soggettiva di Asa, che guarda avvicinarsi minacciosamente le punte aguzze al suo viso. Lo spettatore viene così avvolto nella spirale del voyeurismo più estremo: lo spettacolo della propria morte. I gemiti di sofferenza fuori campo della donna si fanno insopportabili e la decisa mazzata che il nerboruto boia piazza alla maschera la libera - ci libera - finalmente dalla sofferenza. Il sangue sgorga copioso dalle feritoie all’altezza degli occhi, del naso e della bocca. Titoli di testa, ed è già leggenda.
Ispirato al racconto Il Vij di Nikolaj Gogol, La Maschera del demonio è senza dubbio uno dei grandi classici del cinema horror italiano. La storia della disgraziata Asa, che in punto di morte giura vendetta sulla testa dei discendenti della sua famiglia, i nobili Vajda, con il tempo non ha perso nulla del suo fascino e la sequenza, curata dallo stesso Bava per gli effetti speciali, della ricomposizione del volto di Asa prima della sua resurrezione resta ancora oggi elegantemente ripugnante.
Acuta intuizione da parte del regista è stata anche quella di ingaggiare come protagonista quella che poi diverrà l’icona della paura sugli italici schermi: Barbara Steele, viso diafano e figura oppressa da angoscia perenne nei panni della principessa Katia, pronipote e copia carbone di Asa; pregna di erotismo sottocutaneo, tanto da fare letteralmente esplodere la tomba che la trattiene legata all’eternità, quando incarna la strega vampira. Cinema d’alta scuola, che si nutre di suggestioni oniriche (la carrozza al ralenti nella nebbia), che vira nella fiaba (la bambina nel bosco che trasuda minaccia da ogni ramo sembra rimandare a Biancaneve, così come la Maschera del demonio riflessa nel fondo di un bicchiere) e che appassiona senza il ricorso a inutili ridondanze.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, su http://www.cineboom.it/

mercoledì 20 maggio 2009

Identikit di un delitto



Il cartellino del detective Erroll Babbage non evoca più da tempo il dolce riposo promesso dalla timbratura in uscita. No, perché Erroll Babbage ha guardato troppo a lungo nell’abisso e combattuto contro tanti, troppi, draghi. E, alla fine, l’abisso ha guardato in lui, che si è trasformato in un drago.
18 anni di servizio possono tarlare come 18 anni di galera, magari da innocente, la psiche di un uomo che ha la non facile responsabilità di un gregge tutto particolare (The Flock, il gregge, appunto, è il titolo originale del film): condannati per reati legati alla sfera sessuale in libertà vigilata: stupratori, sequestratori, molestatori di adolescenti, di bambini, di animali, guardoni e via discorrendo. Una sfilza di pervertiti che periodicamente devono essere sottoposti a un questionario avente la funzione di attestare o meno la non pericolosità del loro vivere fra la gente. E se ciò non dovesse dare sufficienti garanzie, niente di più incisivamente preventivo che indossare un passamontagna e giù botte con la mazza in strada alla pecorella macchiatasi soltanto di aver squadrato con un surplus di insistenza un gruppetto di ragazzine.
Ora, l’auto lo sta traghettando spedita verso la fine dei suoi giorni da vigilante: l’ultimo pestaggio ha deciso per lui un 'pensionamento' in anticipo su quello già comunicatogli dal suo superiore, ormai non più disposto a tollerare metodi da giustiziere della notte.
L’uomo Erroll Babbage ha però una coscienza che non gli permette di limitarsi a liberare la postazione di lavoro: il lamento di dolore e gli occhi mai riarsi dei tanti genitori ai quali fa visita per riaccendere la speranza almeno di poter dare degna sepoltura ai figli sottratti loro da mani insensibili, fa rombare il motore e sollevare spessi nugoli di polvere del deserto: è quasi certo, infatti, di aver individuato il luogo di tumulazione di alcune vittime di uno dei maniaci appartenenti alla sua cerchia di sorvegliati.
Prima regia americana di Andrew Lau, talentuoso quanto artisticamente discontinuo regista di Hong Kong, comunque già in una posizione di rispetto negli annali del thriller con la trilogia di Infernal Affairs ( dal cui primo capitolo Martin Scorsese ha ricavato nel 2006 la pellicola che gli ha consegnato l’Oscar tante volte solo sfiorato: The Departed), Identikit di un delitto non ha fatto in tempo a raccogliere ai botteghini Usa gli incassi sperati, in considerazione anche di una coppia di protagonisti di sicuro richiamo, dal momento che è stato proiettato solo al Festival di Palm Beach, per finire poi a rischio polvere fra gli scaffali dei dvd.
Francamente, sfuggono i motivi di cotanta disfatta. Certo, l’indimenticabilità è lontana e la versione qui recensita non gode del director's cut, ma non vuol dire poi molto: il soggetto scuote e Richard Gere sfiora il sublime nel caratterizzare un uomo di legge che si spera abbia conosciuto giorni migliori prima che la sicurezza della società lo divorasse dall’interno. Un’ossessione per nulla magnifica che gli fa trascorrere le giornate, quando non deve mettere sotto torchio nessuno, a cerchiare sul giornale i crimini a sfondo sessuale le cui modalità potrebbero far risalire a uno dei suoi vigilati. Non riesce a smettere di imbrattare carta neanche quando mangia, in questo richiamando il benemerito e certamente più 'leggero' Marion Cobretti, detto Cobra, di Sylvester Stallone, incancellabile quando si produce nella manutenzione della sua pistola masticando un trancio di pizza precedentemente tranciato con le forbici.
Curriculum per larga parte inattaccabile, con una gemma quale la Giulietta dello sfolgorante Romeo + Giulietta di William Shakespeare di Baz Moulin Rouge Luhrmann, Claire Danes è la scelta di Lau per dar corpo alla fresca di nomina Allison Lowry.
Occhi che irradiano contagiosa positività e un sorriso largo e schietto, l’agente Lowry si presenta da subito come l’antidoto alle pulsioni autodistruttive di Babbage, di cui è destinata a prendere il posto.
Babbage ha tuttavia la presunzione di non aver bisogno di alcuna “cura” e con la giovane collega, alla quale deve insegnare il più possibile nel tempo rimastogli, non sono logicamente scintille, visto soprattutto che questa, pur volenterosa e dedita alla causa, non esita a sbattergli in faccia le sue nevrosi. "Tu non parli. Interroghi!" è la sferzante osservazione durante un drink in casa di lei. Dove, finalmente, Babbage riesce a liberarsi da sé stesso lasciandosi sedurre da repentino sonno su un divano.
Forte di una decisa mancanza di accondiscendenza nei confronti dello spettatore (“Tutti abbiamo delle fantasie sessuali”, incalza Babbage rivolgendosi a uno dei suoi “assistiti”), Identikit di un delitto annovera almeno una sequenza di forte tensione e insopprimibile disgusto: l’irruzione dei due agenti federali nello 'studio' fotografico del presunto rapitore di una minorenne (sulla cui scomparsa si snoda la trama del film). Qui, all’incrocio fra il bosco di Biancaneve e il rifugio di Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti, immagini e suoni si fanno sintesi definitiva di una società cronicamente votata alla perversione, e la scelta di girare quasi tutto dal punto di vista della Lowry sembra voler avallare la necessità della perdita di una purezza di ideali a favore del profondo nero di cui si arma il 'nemico'.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di Agosto 2008.

sabato 16 maggio 2009

L'incredibile Hulk



Accantonate le artisticamente più che valide, ma disastrose dal punto di vista degli incassi, ambizioni intellettuali e le ricercatezze formali dell’Hulk licenziato dal premio Oscar Ang Lee nel 2002, la Marvel, che con il coevo Iron Man ha imboccato con successo la strada della produzione, delibera di restituire verginità cinematografica a uno dei più preziosi tra i suoi fiori all'occhiello e affida il Golia verde all’estro e al dinamismo a 24 fotogrammi al secondo del francese Louis Leterrier, allievo fra i più capaci di Luc Besson.
Sin dai coinvolgenti titoli di testa, che narrano in una manciata di minuti la genesi ai raggi Gamma dell’emulo di mister Hyde, l’intento è palesemente quello di omaggiare la meraviglia e il pathos che hanno fatto la fortuna dell'omonima serie televisiva (1978-1982) interpretata da Bill Bixby nei tormentati panni del fisico nucleare Bruce Banner e dal culturista Lou Ferrigno, strabordante dai pantaloni strappati e sempre troppo corti del gigante in perenne arrabbiatura con il mondo.
Banner si è rifugiato da cinque anni in una favela brasiliana e qui prosegue le sue ricerche per sopprimere il mostro che gli lacera carne e vestiti ogni qualvolta si arrabbia o è in preda a forti emozioni. La vita scorre in qualche modo serena fra esercizi di respirazione e un lavoro presso una fabbrica di bibite. La parvenza di normalità è però destinata a dover tornare a fare i conti con la dura realtà di un uomo in fuga: lo scienziato si ferisce e una goccia di sangue va a infettare una bottiglia di un lotto destinato a New York. Qui, un anziano signore (Stan Lee, il benemerito “papà” di gran parte dell’universo Marvel, nella consueta apparizione in un cinefumetto da un personaggio da lui creato) beve e si sente inebriato da una forte scarica di energia.
Tanto basta per rimettere in pista il generale Ross e per ridestare il mai dimenticato amore tra Bruce e Betty Ross, figlia del soldato che ha fatto della cattura di Hulk a scopi militari la sua unica ragione di vita.
Occorre che lo si ammetta: dal trailer sembrava di dover assistere a una pura e semplice sequela di botte da orbi fra titani e a spari e ad esplosioni che, se da un lato fanno rintronare le orecchie, dall'altro lasciano libero il cervello di impegnarsi nella compilazione della lista della spesa per il fine settimana.
Fortunatamente, lo Studio offre a Edward Norton la possibilità di apportare modifiche alla sceneggiatura e questi, già regista e avvezzo, per sua natura, a questo tipo di incarichi, non si smentisce e scongiura una deriva eccessivamente adolescenziale. Oltre a offrire (dopo aver declinato a suo tempo l'offerta di Ang Lee) l’ennesima brillante performance nei panni di un Bruce Banner sempre più lucido circa la propria volontaria condizione di emarginato dal consesso civile, assemblea che, all’occorrenza, non si tira però indietro: in una delle scene più drammatiche vediamo lo scienziato, dopo una trasformazione, vagare sporco e seminudo in una strada intrisa di povertà del Brasile sulle note di The Lonely Man, il malinconico tema del serial tv. Si siede, spossato, ed è talmente malridotto da smuovere a elemosina una bambina. Che sicuramente non naviga nell’oro.
Louis Leterrier, che con Danny the Dog aveva già affrontato con furore cinetico stemperato da momenti di tiepida dolcezza il tema dell’uomo-bestia, realizza con L’incredibile Hulk un film che magari non sarà un capolavoro, ma che si staglia deciso nei suoi rimandi innanzitutto a King Kong, tanto da far presupporre un remake non dichiarato (vedi la commovente sequenza con il gigante di giada e Betty nella caverna mentre fuori imperversa un violento temporale, con Hulk che, a un certo punto, impaurito da un fulmine, ruggisce tutta la sua ira contro il cielo - più che trasparente metafora di un’umanità che non necessita di un'altezza sui tre metri e mani e piedi spropositati per schiumare verde dalla rabbia, spesso anche per propria colpa -), e a una messa in scena che non si fa pudore di porre l’accento sull’unico sentimento, l'amore, per cui valga la pena di gridare, ormai allo stremo delle forze contro quel parto di una scienza contagiata dal morbo della guerra che risponde al nome di Abominio: "Hulk spacca".

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di giugno 2008.

venerdì 8 maggio 2009

La Mummia - La Tomba dell'Imperatore Dragone



Un silenzio di tomba protrattosi per sette lunghi anni, alle orecchie del fan poteva solo risuonare come la fine di quel tutto sommato gradevole ripescaggio di una delle figure più magneticamente terrorizzanti del cinema horror dei gloriosi anni Trenta, il redivivo gran sacerdote Im-Ho-Tep, reso immortale nel 1932 dall’interpretazione di un Boris Karloff che, l’anno prima, aveva già consegnato ai posteri la maschera e le movenze di Frankenstein.
Declinando i chiaroscuri e l’espressività essenziale del capolavoro di Karl Freund, La Mummia, nei dinamismi e nei siparietti sciogli tensione delle pellicole di Indiana Jones, nel 1999 l’agile Stephen Sommers tornò infatti a srotolare le bende che avevano avvolto l’egizio, condannato per sacrilego amore a sentirsi deporre nel sepolcro, per agitarle contro l’ex legionario Rick O’Connell e la bella archeologa Evelyn ne La Mummia, primo tonitruante capitolo di un dittico che, insieme a La Mummia - Il ritorno (2001), si fece portabandiera della nostalgia per la prolungata assenza dagli schermi del professore con frusta e cappello inventato da George Lucas.
Ora, escludendo dal conto Il re scorpione, spin-off del 2002 la cui muscolare regia di Chuck Russell frena la sensazione di mera operazione raschia barile, grazie a un delizioso effetto madeleine che rituffa nelle cartapeste di Ercole e compagni, questa ormai insperata terza impresa degli O’Connell (gia sposatisi con pargolo di otto anni nel secondo episodio), La Mummia - La Tomba dell’Imperatore Dragone, giunge a dare manforte al sempre insopprimibile anelito alla libertà dalle preoccupazioni di ogni giorno già gratificato qualche tempo prima, dopo ventennale afflizione, dal ritorno col botto dell’avventura old style, sebbene chiazzata da ombre di contemporanee inquietudini, firmata Indiana Jones e il regno del Teschio di Cristallo.
Nell’antica Cina, l’invincibile e spietato re Han ha due obiettivi precisi: diventare imperatore e ottenere la vita eterna. Al potere supremo pensa la sua armata, alla perpetuità la strega Zi Juan, che chiede in cambio di poter vivere accanto al generale Ming, del quale si è innamorata.
Ingannata però con una falsa promessa, Zi Juan getta una maledizione sul sovrano, che si trasforma in una statua d’argilla insieme al suo esercito di diecimila guerrieri.
Nel 1947, l’archeologo Alex O’Connoll, figlio di Rick ed Evelyn, riporta alla luce il sarcofago di Han. Puntuale, alla incommensurabile scoperta scientifica fa da contraltare il solito drappello di fanatici che hanno atteso il ritorno dell’imperatore, che, svegliato da Rick, motivato da una pistola puntata contro sua moglie, non tarda a riappropriarsi dei millenni perduti a capo di un’intera legione di morti viventi.
Riservatosi il ruolo di produttore esecutivo, Stephen Sommers grazia l’Egitto e dissotterra il caos in terra asiatica per mano del funambolico Rob Cohen, che fa “recitare” persino il logo della Universal prima di aprire con un wuxiapian, il genere “cappa e spada” cinese, che ha il solo difetto di durare meno di dieci minuti prima di far dissolvere il mausoleo con il marziale volto dell’imperatore su quello da bambinone di Rick O’Connell, che mettendo da parte la canna da pesca a favore di una più sbrigativa pistola, si esibisce in un numero comico che riporta il film sui consueti binari 'mummieschi', vale a dire gag di immediato impatto, battute più o meno spiritose e azione a rotta di collo al servizio di una drammaturgia che vede come polvere negli occhi qualsivoglia brama di impegno.
Questa Tomba dell’Imperatore Dragone, poi, fatta eccezione per l’incipit, sigilla quelle aperture all‘ambigua seduzione del terrore che pure serpeggiava nei due lavori che l‘hanno preceduta, e 'scrivendo la parte' per tre abominevoli uomini delle nevi e un drago tricefalo, si pone a ennesimo modello di un universo immediatamente pronto a essere messo in discussione da una ben calibrata manovra del joystick.
Divertimento più che assicurato, quindi, per chi pensa in Playstation; per tutti gli altri, un suggerimento per reprimere qualche sbadiglio potrebbe essere quello di intervallare la visione valutando come assolutamente non controproducente per la carriera il mancato giro sulle montagne russe di Rachel Weisz nel ruolo, fin qui, di Evelyn.

Originariamente pubblicato, fatte salve alcune modifiche, sul quotidiano il Levante nel mese di ottobre 2008.